L’Amn el Dawla (Sicurezza di stato) sta per tornare ad essere l’incubo dei Fratelli musulmani. Se dopo le rivolte del gennaio 2011 era diventata il Servizio di sicurezza nazionale (Ssn) tornerà presto a controllare le attività di salafiti e Fratelli. Lo ha assicurato in una conferenza stampa il ministro degli Interni Mohammed Ibrahim. Il tentativo di ricostruire l’unità anti-islamica era fatalmente fallito nella fase di transizione post-Mubarak. I militari avevano spesso parlato di dare poteri speciali alla polizia militare ma mai di ricostituire un’unità che avesse come scopo di colpire direttamente gli islamisti. «È una follia»: ha subito intimato il leader dei Fratelli Essam El-Arian al “manifesto”. Uno dei giorni indimenticabili per questa generazione di Fratelli è stato l’8 aprile 2011. Quella notte l’Amn el Dawla è stata presa d’assalto per ore, decine di migliaia di documenti sono andati in fiamme. Si trattava dei file scottanti che inchiodavano alle loro responsabilità decine tra criminali e attivisti politici, indistintamente. Migliaia di copie di email, di intercettazioni telefoniche, di video che venivano usate come prove contro gli islamisti o servivano a fabbricare accuse del tutto surrettizie. Questo annuncio, insieme alla strage perpetrata principalmente dalla polizia il 26 luglio scorso, ha motivato i Fratelli musulmani a chiedere ai propri proseliti di attaccare le infrastrutture militari. «È il ritorno all’era di Mubarak» – ha dichiarato l’attivista per i diritti umani Aida Seif el-Dawla. Aida lavora per il Centro Nadeem per la riablitazione delle vittime di violenza e tortura. «Queste unità hanno commesso le violazioni più atroci dei diritti umani, detenzioni sommarie e segrete, uccisioni fuori legge. L’Amn el Dawla ha ucciso decine di islamisti negli anni Novanta e i suoi esponenti non sono mai stati giudicati per questo», conclude. «Andiamo verso la stazione di polizia, siamo studenti universitari, non abbiamo paura. Non possiamo permettere che l’Islam venga cancellato», ci spiega la prima linea di una marcia diretta da Rabaa verso il ponte di 6 Ottobre, proprio dove è avvenuto il massacro dei giorni scorsi. Questi ragazzi negano le responsabilità di Safwat Hegazy nel massacro. Secondo alcuni media indipendenti, il leader islamista, salito sul palco allestito a Rabaa, avrebbe chiesto ai manifestanti di spingersi oltre l’Università di Al Azhar e si sarebbe diretto con loro verso le forze di polizia che presidiavano le maniferstazioni a qualche chilometro di distanza. Ma quando è iniziata la sassaiola e poi la sparatoria avrebbe lasciato i manifestanti al loro destino. Mentre erano attivi centinaia di baltagi. I baltagi sono piccoli teppisti, veri camorristi che infestano le strade egiziane in momenti caotici. Negli anni Ottanta e Novanta i baltagi erano i terroristi islamici, responsabili soprattutto di attentati in luoghi frequentati da turisti. Dalle rivolte del 2011 sono affiliati al Partito nazionale democratico, pagati per innescare violenze e diffondere il caos. Ma con la strage del 26 luglio scorso, il termine baltagi torna ad avere un’accezione più ampia: secondo i sostenitori di El Sisi, comandante in capo delle Forze armate egiziane, sono da considerare baltagi, cioè criminali, gli islamisti che di notte marciano da Rabaa verso piazza Tahrir. Dal fronte opposto, cioè per i Fratelli musulmani, sono baltagi gli agenti di polizia che sparano indiscriminatamente sui loro sostenitori o si servono, per farlo, di piccoli delinquenti pagati da loro. Che l’Alto commissario per la politica Estera dell’Unione europea Catherine Ashton abbia incontrato Morsi e si candidi a mediare tra le forze politiche egiziane ai manifestanti di Rabaa non sembra importare molto. E neppure le dichiarazioni contro le violenze e che confermano le accuse formulate dai giudici contro l’ex presidente, rilasciate dal vice presidente El Baradei. File di tende costeggiano per chilometri via Nassr a Rabaa, a destra e sinistra della strada principale. «La polizia ci uccide perché sa che saremo sempre di più e teme che andremo a liberare Morsi con le nostre mani», ci dice Engi, giovane di 30 anni, direttore di una piccola azienda, venuta da Kafr el Sheykh per difendere il presidente che ha votato.