Sull’orlo di un grande cambiamento – con la direzione che da Steve Della Casa passerà il prossimo anno a Giulio Base – il Torino Film Festival tiene ancora fede al patto stretto con la città, portando sugli schermi in anteprima nazionale alcuni dei film più importanti dell’anno (Víctor Erice, Christian Petzold, Radu Jude), proponendo una panoramica delle promesse del cinema internazionale e fungendo da piazza per le tante espressioni del cinema italiano. Si nota qualche assenza tra i registi venuti di persona a presentare i loro lavori, ma non è un dato significativo per il pubblico che affolla le sale a ogni ora. Anche le polemiche che hanno infiammato altri festival – pensiamo ad esempio alle proteste dei registi palestinesi all’Idfa di Amsterdam – sembrano qui un ricordo lontano, come se fossimo in un habitat protetto appena accanto allo struscio torinese.

TRA LE VISIONI del concorso è emerso sinora Grace di Ilya Povolotsky, uno dei pochissimi film russi a circolare in Europa quest’anno. È il primo lavoro di finzione del regista dopo una carriera nel documentario, e filmare fuori dal set ha forse contribuito allo sviluppo di una grande sensibilità per il paesaggio che, unita a un’ottima fotografia e alla scelta di girare in pellicola, da vita a un ambiente in cui è un piacere indugiare. All’inizio sembrano non avere una direzione precisa i due protagonisti, un padre e una figlia, che si muovono su un furgoncino attraverso l’austera steppa russa: ma con i loro movimenti si dispone pian piano una geografia che comprende frontiere fisiche quanto linguistiche, a sottolineare la complessità di quel territorio, mentre nelle sottigliezze si intuisce il rapporto tra i due e il senso di quel loro viaggio.

Una storia più marcatamente drammatica è invece quella al centro di Atikamekw Suns di Chloé Leriche, regista canadese già a Torino nel 2016 con un film incentrato sulla popolazione indigena che vive nel Quebec, gli Atikamekw appunto. Nel lavoro presentato in questi giorni Leriche ha ricostruito una brutta vicenda avvenuta nel ’77, quando cinque nativi persero la vita in quello che solo superficialmente aveva l’aspetto di un incidente. Ora che il cinema americano sembra riconoscere un po’ della «violenza simbolica» inflitta agli indigeni – pensiamo alle scuse di Hollywood a Piccola Piuma Sacheen Littlefeather – Leriche si concentra su quella che fu una vera e propria violenza istituzionale bianca, messa in scena grazie ai ricordi, i sogni e le testimonianze – che talvolta entrano in campo – raccolti tra i membri della comunità che vissero quell’episodio traumatico.

Si accennava prima al ruolo di «piazza» che il festival rappresenta nei confronti del cinema italiano. Sono numerosissimi i film presenti, con un accento particolare sugli esordi. Riccardo Giacconi – regista che si muove tra cinema, installazione, teatro – torna al Tff col suo primo lungometraggio che è a tutti gli effetti un trompe l’oeil. Guardando Giganti rosse si crede infatti, fino alla fine, di avere a che fare con un documentario incentrato sulla sorella di Giacconi, Carlotta. La sua vita complicata, tra il lavoro e il figlio nato da poco, viene colta nell’intimità dei momenti casalinghi, nei conflitti con l’altra sorella, nei pranzi di famiglia. Solo dopo scopriamo che le due protagoniste sono attrici – per quanto vicine al regista – e che i loro ruoli di «sorelle» sono stati inventati. Giganti rosse diventa così un dispositivo dall’ironia micidiale che permette di ragionare sulla creazione dell’identità, sul patto narrativo, sulle aspettative dello spettatore e sul senso del fake.

È INVECE un documentario a tutti gli effetti Oltre la valle di Virginia Bellizzi. Nella sua opera prima la regista mette in relazione il fenomeno della migrazione con il concetto di frontiera, fermandosi poi ad indagare la realtà specifica del confine tra Italia e Francia, dove nei pressi del Monginevro un centro di accoglienza è un rifugio per quelli che tentano di attraversare. Le storie di vita dei migranti, costretti a questo diabolico «gioco» ognuno per un diverso motivo, si intrecciano a quelle di chi gestisce il centro, mentre tutto intorno c’è chi scia, chi gioca a golf, chi non deve giustificarsi per quella spinta ad «andare oltre» che da sempre caratterizza l’essere umano.

SE GLI ESORDI ci proiettano nel futuro, sono diverse le proposte «recuperate» dal passato. Accanto alla retrospettiva dedicata a Sergio Citti e a folgorazioni come L’amour fou di Rivette, è paradigmatico El realismo socialista, terzo film che riemerge tra gli incompiuti del grande regista cileno Raúl Ruiz grazie al lavoro della montatrice e moglie Valeria Sarmiento. Questo film, girato poco prima del colpo di Stato di Pinochet – ragione per cui non venne portato a termine – mostra le difficoltà del socialismo nell’affrontare svariate questioni di vita quotidiana: dalla giustizia, all’abitare, alla produzione. Con piglio spiccatamente ironico, nel film di Ruiz i membri del partito (l’Unità popolare di Allende) hanno sempre una risposta buona per tutto, l’ideologia sembra poter dettare ogni passo, ma tanto i lavoratori quanto gli intellettuali sono piuttosto scontenti dell’applicazione pratica. Protagonisti del film sono, tra l’altro, operai di una fabbrica occupata che il regista coinvolse nel progetto e che evidentemente non avevano difficoltà a «mettere in scena» questioni che li riguardavano direttamente. El realismo socialista mostra come la modalità discorsiva sia necessaria ad ogni esperimento sociale egualitario, dove la retorica rappresenta però uno strumento e un rischio sempre dietro l’angolo.