Michelangelo Russo: «Nel Contagio, Paolo Giordano scrive: “non ho paura di ammalarmi. (…) Ho paura dell’azzeramento ma anche del suo contrario: che la paura passi invano, senza lasciarsi dietro un cambiamento”. Non appena Rt tornerà inferiore a uno, l’arresto della paura smorzerà la tensione al cambiamento dovuto alla crisi. Tensione da conservare, accogliendo la sollecitazione del Nobel J. Stiglitz: “non sprecate questa crisi!”.

La crisi ha sconvolto la topologia urbana come “sistema relativamente stabile di schemi percettivi e di immagini tratte dall’ambiente”: un concetto che non tratta distanze permanenti, angoli, aree, ma si basa su rapporti, di vicinanza, separazione, successione, recinzione (dentro-fuori), continuità. Non tanto misure, ma relazioni che danno forma e significato allo spazio esistenziale, la cui misura è il corpo, con la sua presenza e le traiettorie del suo movimento.

La topologia della città pandemica è lo spazio dell’assenza, la sua icona sono le piazze isolate nel lockdown, prive di civitas, architetture metafisiche, spazi di pietra senza vita e senza corpi. Nella città i corpi si incontrano per rivendicare il carattere pubblico dello spazio, come accade nelle manifestazioni di massa dove “i corpi si riuniscono, si muovono e parlano insieme, rivendicano un certo spazio in quanto pubblico” (J. Butler, Alleanze di corpi, 2017).

I corpi nella loro pluralità, producono il pubblico, riconfigurano l’ambiente: la piazza e la strada sono parte dell’azione pubblica, corporea. La negazione di questo spazio di apparizione, in cui “agire e parlare insieme” (Hanna Arendt in Vita Activa), vanifica il senso originario della Polis che si realizza tra le persone che vivono insieme, indipendentemente dal luogo in cui si trovano.

Non sprecare questa crisi vuol dire rimettere il corpo– nella fisicità della sua dimensione individuale e collettiva- al centro di un progetto possibile di città, in una rete illimitata di relazioni immateriali.”

Sarantis Thanopulos: «La tua visuale di urbanista attento all’umano, riabilita la città come spazio architettonico abitato da corpi che comunicano e si relazionano tra di loro in modo eroticamente, affettivamente, intellettualmente significativo (profondo e coinvolgente). Taglia corto con le messe in scena della società dello spettacolo che, distruggendo il legame tra effimero (la presenza immediata nel mondo che non pensa all’eternità) e persistenza (la durevolezza dell’inattualità), ci consegna a uno spazio di ombre parlanti, ma non comunicanti. L’agire mistificante di queste ombre non imita un fatto accaduto per rimetterlo in gioco, esplorando la sua potenzialità (come fa la tragedia greca). Non accenna ad altro da sé, non rappresenta: afferma che il nulla è essere.

L’eclissi dei corpi dialoganti negli spazi urbani “monumentali” progettati dagli architetti nazisti e sovietici, di cui i quadri di De Chirico danno una rappresentazione anticipatrice, a tratti forse ambigua, ma sicuramente rivelatrice, trova oggi la complicità dell’“architettura” degli spettacoli che intrattengono un pubblico vastissimo e indifferenziato.

Questa architettura, che influenza la nostra concezione degli spazi urbani, nasconde ciò che De Chirico rivela: le grandi platee degli assembramenti di massa rendono i corpi umani virtuali anche quando i raduni sconfinati avvengono “in presenza”. La paura passerà invano se non si affermerà nella sua forma più sana: la paura di non vivere. Il suo opposto, la paura di vivere, ci avvinghia oggi ed è la fonte psichica di ogni catastrofe.

Vivere significa ritrovare i luoghi degli incontri reali, dov’è possibile guardarci con curiosità e interesse, sostare per conversare, sentire il nostro respiro che incontra il respiro degli altri, percepire il mescolarsi dei nostri sentimenti e pensieri senza timore di essere contagiati. Amo l’architettura che sa valorizzare questi luoghi».