Ri-progettare, ri-pensare, ri-considerare, ri-disegnare, ri-prendersi spazi urbani da parte della collettività da sempre non è semplicemente un atto di pura appropriazione di un territorio interno o limitrofo a una città. È tessere una trama visibile di necessità che ha sempre cercato una forma esteticamente plausibile prim’ancora che bella. La ricerca sugli spazi pubblici o di semplice connessione urbana tra individui o di rapporto tra individuo e ambiente si è ora così strettamente legata alla pratica di dissenso politico e ha assunto una tale portata simbolica da divenire vero e proprio manifesto di quel conflitto, ruolo che spesso appanna il bello del progetto. Esiste invece una poetica forte, una narrazione affascinante che tenta di ricomporre ciò che il cattivo governo spesso frammenta, impoverisce, nega laddove da molto tempo il binomio Paura-Profitto è stato il combustibile predominante delle politiche urbane.

Molta di questa poetica produzione si vede e si legge nella Biennale di Istanbul che diventa così racconto nitido e vera mappatura, anche storica, dei mutamenti proposti per nuove caratterizzazioni territoriali. Si parte allora dal 1974 quando Nil Yalter e Judy Blum reinterpretarono la topografia di Parigi con gli occhi di «due stranieri» distribuendo gli istituzionali arrondissemets su cartelloni pieni di patterns disegnati, a collage, fotografati che conferivano a ognuno caratteristiche antropologiche e di genere imposte, Pigalle (18°) luogo dove la liberazione del corpo femminile scadeva a spettacolo erotico, Paris Bourse (3°) luogo inaccessibile alle donne, Ménilmontant (20°), sobborgo annesso alla città dal barone Haussmann, luogo dove va la polizia e così via in una sorta di stradario politico.

Ma sulla piattaforma turca e sui visitatori pesa subito l’orrore della violenza istituzionale, delle vite spezzate per difendere un parco, pesano i giorni di Gezi Park, che non è stato un esercizio di stile ma la difesa a oltranza del valore democratico e comunitario di quello spazio. Allora la necessità di lavorare sul riconoscimento urbano diventa urgenza e crea stabili rapporti di desiderata. Christoph Schäfer riprende il progetto di costruzione attiva, collettiva e pacifica di un parco smantellato a Amburgo dalle autorità nel 1994 e successivamente ricostruito dopo un intervento comune di popolazione e artisti di varia natura e provenienza e chiamato Park Fiction (www.park-fiction.net). Appena Gezi Park è stato sgombrato, i residenti del quartiere del parco di Amburgo hanno ri-nominato il loro territorio conquistato Gezi Park Fiction. Ma nel frattempo le autorità turche distruggevano anche Yedikule Park, un gioiello di archeologia botanica, e Schäfer, membro di quella comunità tedesca, ha avviato in una sorta di sogno disegnato e progettato in profondi blu, squillanti verdi e azzurri di un Gezi Park e di un Yedikule Park immaginato e pensato dagli abitanti di Istanbul.

Sull’onda dei colori semantici ci sono i progetti di Fernando Piola che diventa giardiniere dei tormenti di São Paulo con Red Square Project e Tutoia Operation, progetti simili in cui per indicare una cancellazione che non è solo urbanistica, ma anche storica, la vegetazione di quei punti di città viene colorata di rosso vivo o sostituita in modo lento e dissimulato, con fogliame rosso. Rosso dell’allarme, rosso della vergogna.
La prima piazza è in un quartiere in cui ufficialmente il Governo è intervenuto per abbattere spaccio, delinquenza e prostituzione, ma che cancellava anche un luogo oscuro della repressione della dittatura, il Dipartimento Servizi Sociali l’ente governativo responsabile della persecuzione dei «nemici dello stato». L’intera gran via Tutoia, a poco a poco arrossita, era un luogo simbolo della dittatura militare in cui il ritornante pretesto di abbellimento avrebbe dissolto ogni ricordo degli orrori.

Nell’incessante colloquio che la Biennale instaura tra Turchia e resto del mondo risalta il terribile ruolo di laboratorio che tanto i poteri occidentali, quanto quelli orientali riservano a Istanbul per i prossimi decenni come racconta il lavoro di Sekan Taycan che affronta lo spaventoso progetto di Kanal Istanbul (un canale urbano tra il Mar di Marmara e il Mar Nero che creerebbe due enormi non-sobborghi di almeno un milione di persone per zona) percorrendo a piedi i 69 Km che segnano la lunghezza del canale come un novello, disobbediente Thoreau e annotando minuziosamente con parole, fotografie, disegni, schemi, insieme agli istanbulioti che si univano, tutto ciò che questo progetto cancellerebbe dagli antichi frutteti alla più antica cava della Turchia, dagli insediamenti di piccoli gruppi sociali da sempre legati alla storia della città ai bacini d’acqua in cui da secoli si specchia una vegetazione tipica. Il risultato di questa lunga camminata diventa una tecnica, struggente misura visiva di come la preziosa complessità di microsistemi ecologici e antropologici venga sempre violentemente negata dalla megaprogettazione. Ma se lo sguardo privo di noncuranza produce materiale abbondante per difendere il rapporto tra comunità e contesto, lo sguardo attento per eccellenza, quello dei bambini, degli adolescenti, cosa produce? Fabbrica meravigliosi percorsi, utopie tutte praticabili, serissimi giochi, colorati spazi che stravolgono l’imposta stratificazione politica di città alte, luogo di strategico pensiero, e città basse, luogo di tattiche di mera sopravvivenza, trasformando una baraccopoli in materia viva e critica, laboratorio non di semplice speranza, ma di fattibilità. È questa la certezza che si trae dopo essere stati davanti ai cartelloni del Proyecto Secundario Liliana Maresca. Il progetto nasce in una baraccopoli di Lomas de Zamora in Argentina, in una scuola che non merita per le autorità neanche un nome, dall’idea di un gruppo di artisti che lavorano lì dal 2001. Per una lontanissima Biennale, a una misteriosa «comunità globale» che certo non li conosceva come si sarebbero presentati? Come avrebbero fatto conoscere il luogo ostile dove però quotidianamente sia come spettatori che come produttori producono cultura visiva? Sarebbero riusciti a far conoscere le loro tradizioni e la loro invenzione del cambiamento? Uscendo dalla visione dei loro rutilanti percorsi tracciati per noi che in quel luogo sapremmo solo perderci e disperare siamo certi che la scommessa del Collettivo Secondario è vinta.
Da molte domande nasce anche il progetto Mülksüzlestirme Agla Networks of Dispossession, una mappatura in continuo movimento che nasce dal dato fermo e ovvio con cui è stata aperta questa pagina e cioè che la trasformazione urbana nasce con la città, sono gli attori e i possibili soggetti interlocutori a essere violentemente mutati nel corso degli ultimi decenni. Allora, prima ancora che gli spazi, bisogna spossessare il più rapidamente possibile delle idee e dei meccanismi virtuali che sono alla base di uno stravolgimento urbano che ignora qualsiasi dialogo le holdings immobiliari, i gruppi detentori di un capitale che è invece per sua natura pubblico e le istituzioni corree. L’interfaccia del progetto gira sulla rete e può essere costantemente mutato, spossessando quindi, da chiunque aggiunga dati e elementi di informazione e smascheramento. Sulle mura della Scuola greca di Galata sono appese delle visualizzazioni di questa continua connessione che lavora in particolare sugli osceni progetti di «ammodernamento» di Beyoglu. Cosa colpisce? Che sono bellissime.
E allora il titolo della Biennale si svela e se gli antichi Greci sorridevano sarcastici dell’incerto balbettare di quegli estranei è indubbio che furono proprio i Barbari a raccogliere e rendere viva e preziosa l’eredità di quelli che la polis avevano inventato. Quindi, sì, è opportuno che si diventi tutti Barbari.