Sono assai rare le stelle dell’immaginario il cui lucore permane senza mai offuscarsi e invece, nel corso del tempo, incendiarsi di un nuovo chiarore come un sole che stia per esplodere ma non deflagra, brillando solo con più intensità. Così scintillante è stato il 2023 per Super Mario, l’icona di Nintendo inventata da Shigeru Miyamoto per Donkey Kong più di quarant’anni fa, quando si chiamava ancora Jumpman e non era neppure idraulico ma un operaio edile, un eroe del popolo quindi, sempre.

È cominciato con il lungometraggio dedicato a Mario uscito durante la primavera scorsa, film che ha superato un miliardo di dollari di incasso dimostrando in una maniera radicale la non coincidenza di pensiero tra il pubblico e la critica, persino quella più prestigiosa e acuta ma spesso non abituata all’immagine del videogioco in generale già così «cinematografica» anche quando non vorrebbe esserlo. Tra gli scritti più interessanti conviene citare quello di Raffaele Meale su Quinlan.it, al quale il film non è piaciuto. Tuttavia, fatti i debiti paragoni, il lavoro di Raffaele Meale ricorda quello scritto di Lev Tolstoj in cui lo scrittore raccontò e «recensì» la prima russa del Siegfried di Richard Wagner, una rappresentazione che egli vituperò sebbene le sue riflessioni negative delineino, in maniera più che acuta e spiritosa che solo in superficie può essere fuorviante, il valore artistico e rivoluzionario dell’opera.

Tolstoj lamenta ad esempio la nullità melodica ed espressiva di temi che cominciano e si interrompono senza mai realizzarsi, descrivendo dunque quello che sono in realtà i «leit-motiv» nell’accezione wagneriana , costruttori di connessioni, corrispondenze e di un panorama sonoro mutante con l’azione e la natura o con la psiche, i ricordi e le emozioni dei personaggi. Lo scrittore russo coglie quindi l’essenza relativa di questi ma non la gradisce e soprattutto non la comprende. Anche Raffaele Meale interpreta con acume i pregi del film di Super Mario come mancanze e scrive a proposito: «gli spettatori paiono non accorgersi di essere solo osservatori di una partita giocata da qualcun altro, e sulla quale non c’è alcun modo di intervenire». Conclude poi Meale: «Se tale intuizione fosse stata voluta e ricercata con attenzione… il film si sarebbe potuto trasformare in una sofisticata operazione teorica».

Super Mario Bros è un film che fa davvero della teoria, proprio perché la sua immagine si emancipa da ogni volontà degli autori e si lascia contemplare solo per le sue forme, i suoi spazi e i movimenti; senza che ce ne accorgiamo stiamo guardando un videogioco nella sua più alta confusione con il cinema, nel suo eterno struggimento tra interazione e passività. Super Mario Bros il Film è una riflessione/rivelazione dei vettori, delle architetture bidimensionali o tridimensionali e della cinetica che il giocatore è assai difficile interiorizzi durante la tensione dell’esecuzione. Guardare questo Super Mario, nella deliziosa sciocchezza del suo racconto, è come assistere ad una formidabile lezione, non accademica ma conviviale, a proposito di game-design e delle corrispondenze tra le visioni e le azioni del videogame e del cinema. Solo Sam Barlow con Immortality e Hideo Kojima hanno fatto, ma al contrario, una cosa del genere.

L’anno fulgente di Super Mario non si è tuttavia limitato al cinema, perché è da poco uscita per Nintendo Switch quell’opera d’arte della sovrabbondanza visionaria e della variazione che è Super Mario Wonder, fin troppo facile da definire meraviglioso per quel sorriso ebete ma consapevole e divertito che può animare i volti cupi per i mesi terrificanti di una crisi ormai perpetua con una momentanea ma balsamica gioia ludica. Super Mario Wonder è un platform bidimensionale tra i migliori mai sviluppati attorno al personaggio e la sua compagnia, perché qui si può giocare anche nei panni della principessa Peach, di Luig o di altri; talvolta, per la cornucopia di idee che propone in maniera quasi insostenibile, si è indotti a pensare vagamente tramortiti da tanta meraviglia, che sia il migliore Mario 2D in assoluto, il più amabile senza stress o necessità di virtuosismi, sebbene ci siano dei livelli opzionali di elevata complessità, soprattutto quando l’azione è orientata sul contrappunto tra movimento, musica e suoni.

Subito dopo la suddetta «meraviglia» è tornato sempre sulla Switch, travestito in un rifacimento solo estetico, il fondamentale Super Mario RPG del 1996, un gioco di ruolo classico ma al contempo innovativo -per le sue meccaniche di reazioni difensive e offensive durante i combattimenti a turni- che nacque dalla collaborazione tra la Squaresoft di Final Fantasy e Nintendo.

Super Mario RPG è un gioco conciso quanto denso di storie e di situazioni, musicato con arte dalla più che talentosa Yoko Shimomura, che ha inoltre il pregio di una trama senza dubbio stramba ma persino educativa: il cattivo non è il solito Bowser, invece qui prezioso alleato, ma un fabbricante di armi da un’altra dimensione che giunge a Fungolandia per dare vita ad un’industria bellica, negando nel frattempo al popolo la facoltà di esaudire i propri desideri per biechi scopi egemonici e capitalistici.

Conclude l’anno di Mario non proprio l’idraulico ma la sua «nemesi», ovvero l’avido ma simpatico Wario. Su Switch è arrivato infatti il nuovo episodio della sua delirante, giocosissima e spassosa serie intitolato WarioWare Move It, ovvero un’altra collezione di mini-giochi dalla durata minimale che illudono invece, malgrado la loro brevità, di avere giocato a lungo e con intensità a mille videogame diversi per qualche ora, anche se sono passati solo tre minuti. Da giocare soprattutto in compagnia, WarioWare Move It sembra una raccolta di barzellette interattive che possono sembrare un po’ sceme ma non lo sono mai, un breviario del divertimento rapido ma non frenetico, una parentesi effimera di sfrontata, inutile ma dilettevole ribellione contro la dittatura del tempo.

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Altri giochi segnalati da Federico Ercole
(autore dell’articolo su Super Mario, eletto videogioco e personaggio videoludico dell’anno)
Legend of Zelda Tears of the Kingdom: l’avventura totale di Link tra l’abisso e l’empireo, lo struggimento millenario di Zelda in un capolavoro del game design e di una natura elettronica ma così poco elettronica.
Chained Echoes: migliore gioco di ruolo «giapponese» classico degli ultimi anni ma realizzato invece da un tedesco, Mathias Linda, con un eroismo della volontà wagneriano.
Alan Wake II: le mille sfumature di neri, bellissimi o terribili, di un’opera chimerica che assembla cinema, musica, teatro e letteratura in un insieme che potrebbe dissolversi nell’ambizione ma resta integro.
Spider-man 2: lo spettacolo supereroico cede all’intimismo.
Lies of P: sorprendente Pinocchio horror.
Final Fantasy XVI: tragedia incompresa i cui drammi sono così prossimi a quelli del presente da fare male.
Octopath Traveler 2: la grandiosa coralità, lo splendore artistico antico e avveniristico, la complessità strategica di uno straordinario ottetto per eroi.
Bramble The Mountain King: nordica fiaba nera angosciante e violentissima.
Su Mario qui accanto. Cito ancora Blasphemous 2 e The Last Faith con i loro tetri dedali e i fantastici episodi «4»: Resident Evil e Pikmin. Menzione speciale per il DLC definitivo di Xenoblade 3.

ANDREA LANZA
Annata questa piena di titoli interessanti, tra tutti gli evergreen Resident Evil 4 e Alan Wake 2. Io però sono un videogiocatore dal cuore più semplice, un po’ come Pozzetto nell’immortale Il ragazzo di campagna, ed amo produzioni meno blasonate, capaci però di fare breccia nel mio cuore. Come non citare il bellissimo Atomic Heart con le sue svirgolate alla Bioshock in un 1955 alternativo o il divertente Dead Island 2, atteso mille e mille volte, che diventa l’alternativa pulp di un villaggio vacanze? Anche il misconosciuto Anthology of fear possiede una bella atmosfera tanto da ricordarci, al netto di una povertà evidente di produzione, i migliori momenti del grande Silent Hill, paura inclusa, Il miglior gioco del 2023 però per me resta Lies Of P, un soulslike coreano dalla grafica pazzesca e dal gameplay capace di creare assuefazione. Detto poi da uno che non ha mai finito un Dark Souls o è morto all’inizio di Bloodborne, è sicuramente un complimento. In più Neowiz Games non si limita a rendere steampunk il capolavoro di Collodi, Le avventure di Pinocchio, ma ci fa affezionare ai personaggi, rende dolenti i cattivi e non ha pietà nel costruire un escalation finale da pianti a dirotto.

FRANCESCO MAZZETTA
Come videogioco preferito dell’anno segnalo… un libro. Sono da poco usciti due testi video/ludici interessanti – Giocare è un’arte. Il gioco come tecnologia trasformativa di C. Thi Nguyen (ADD) e UDO. Guida ai videogiochi nell’Antropocene di Matteo Lupetti (SIDO) – ma quello che segnalo è il testo (in inglese) Game Poems. Videogame Design as Lyrics Practice di Jordan Magnuson (Amherst College Press, liberamente disponibile in digitale sul sito gamepoemsbook.com). Nel libro si descrive come e perché si può e anzi si deve fare poesia con i videogiochi. Magnuson descrive solo videogiochi molto «piccoli» e personali, come quelli da lui stesso sviluppati ma è possibile citare almeno un’opera che, se forse non è una poesia videoludica, sicuramente è un videogioco poetico: Jusant di Dontnod. Lo studio francese ha sempre sviluppato giochi originali arrivando al capolavoro di Life Is Strange. Con Jusant (termine che in francese indica il ritrarsi della marea) ci viene mostrato un mondo arido, svuotato dagli uomini fuggiti alla ricerca d’acqua, dove un giovane assieme a uno strano animale ha la missione di arrivare in cima ad una montagna utilizzando poteri in grado di revitalizzare fiori e piante. Non un «walking» ma un «climbing» simulator: oltre a panorami immensi ci circondano le testimonianze e le memorie delle persone che hanno abbandonato quei luoghi.

MATTEO LUPETTI
«Non esistono videogiochi su un pianeta morto» scrive Hannah Nicklin di Die Gute Fabrik nella prefazione al rapporto sull’impatto ambientale di Saltsea Chronicles. Saltsea Chronicles è ambientato in un mondo post-apocalittico dove nuove culture e nuove forme di vita si sono sviluppate cercando di non replicare i sistemi di sfruttamento e oppressione che in passato hanno provocato un disastro climatico globale. E ci risulta essere anche il primo caso in cui abbiamo una stima completa e dettagliata delle emissioni prodotte durante tutta la lavorazione di un videogioco, dall’inizio alla fine. Il rapporto, intitolato Climate Impacts of producing Saltsea Chronicles, è stato realizzato in collaborazione con AfterClimate di Benjamin J. Abraham, l’autore di un recente e fondamentale saggio che prova a discutere e valutare l’impatto ambientale dell’industria videoludica e come può essere ridotto: Digital Games After Climate Change (Palgrave Macmillan, 2022). L’iniziativa di Die Gute Fabrik offre un modello che ogni studio di sviluppo di ogni dimensione dovrebbe oggi urgentemente seguire. Saltsea Chronicles di Die Gute Fabrik è disponibile per PC, Mac, Nintendo Switch e PlayStation 5.

CLAUDIO CUGLIANDRO
In questi giorni di genocidi mediorientali e invasioni ucraine, la visione di armi e missili è diventata persino più «normale» del solito. E questo vale soprattutto per chi gioca ai videogiochi, che hanno reso la pistola vero e proprio simbolo semiotico: nella maggior parte delle esperienze, leggiamo il mondo dalla prospettiva dell’arma (bianca o a distanza) che imbracciamo.
Per anni ho pensato che il rifiuto categorico di questa scelta potesse cambiare il modo in cui percepiamo i videogiochi, e di conseguenza ciò che possono dirci: il rifiuto della violenza come linguaggio dovrebbe stimolare altri tipi di messaggi. In contemporanea, il settore iniziava a riempirsi di esperienze più morbide, prive di contrasti, dedicate al racconto di temi intimi o all’esaltazione della leggerezza ludica.
Nel tempo, ho però capito che il negare in modo netto l’esistenza del conflitto implica negare anche l’esistenza di attriti, che siano politici, sociali o culturali. Ecco, trovare giochi capaci di ricorrere alla violenza non come sopruso ma come mezzo di lotta è qualcosa che manca al settore, rispetto alla sua fase «cozy». Amnesia: The Bunker lo fa benissimo. Giocateci.

GIULIA MARTINO
SaltseaChronicles. Cosa rimane dopo l’apocalisse? In Saltsea Chronicles, resta la possibilità di un’Odissea di gruppo su un immenso mare salato e brulicante di vita. Pieno di bivi e di storie, il videogioco di Die Gute Fabrik conferma la maestria narrativa del team danese, già mostrata con l’ottimo Mutazione, oltre all’attenzione degli sviluppatori per le tematiche ambientali: Benjamin Abraham, autore del volume Digital Games After Climate Change (Palgrave Macmillan, 2022) ha redatto un report sull’impatto del processo produttivo di Saltsea Chronicles sull’ambiente.
Venba. Tormentata dal rimpianto per aver lasciato la natia India alla ricerca di un futuro migliore in Canada, Venba si prende cura delle sue radici grazie al quaderno di ricette della madre, esperta di cucina Tamil. Seguiamo Venba nell’arco della sua vita, partecipando ai suoi momenti più importanti tramite un gameplay incentrato su puzzle culinari. Dalla durata piuttosto limitata (si completa in un’ora e mezza circa), Venba è un’ode al cibo come potente elemento relazionale, capace di catalizzare emozioni e ricordi, oltre a fungere da mezzo espressivo identitario per chi decide di allontanarsi dal proprio luogo d’origine