MARIO GAMBA
Che musica potrebbe stare in sintonia con l’affascinante viaggio filosofico-politico di Donna Haraway (Le promesse dei mostri, DeriveApprodi), cioè natura+cultura+umani+ non umani+tecnologia+mutamenti dei corpi, ma non una somma bensì, appunto, una composizione? Forse Crepuscule in Nickelsdorf di Evan Parker insieme a quattro fervidi collaboratori all’elettronica e ai turntable (Intakt/Ird). Alcuni suoni persino onomatopeici di ambiente diciamo naturale (ma la natura evolve incessantemente, è una «natura sociale»), suoni di sax soprano in processo iterativo e suoni sintetici iper-tecnologici ad ampia diffusione circolare. Forse anche Miles Davis sarebbe stato adatto con la sua «giungla elettrica», però ora abbiamo un’utile bellissima compilation, More Miles (Essential Jazz/Egea) dove il sestetto con Coltrane, Adderley, Evans, Chambers e Cobb è in scena su un’altra lunghezza d’onda (ma chissà…) appena prima della registrazione del seminale Kind of Blue. Anno 1958, 4 brani in studio e 6 dal vivo al Festival di Newport, già apparsi in varie pubblicazioni e riuniti adesso per 72 minuti di musica stratosferica. Di certo «ecologica» – della mente, del vivere sapiente, del riflettere con suoni al limite del silenzio – è la musica di Osvaldo Coluccino in Interni (Kairos). Scritta per tutti i tipi di flauti e nel Sesto interno con l’aggiunta dell’elettronica. Affidata a un celebre interprete di nome Roberto Fabbriciani. Proteso verso una concentrazione del pensiero sulle ipotesi più avanzate del comporre era certamente lo Johann Sebastian Bach di Sonatas and partitas per violino solo (Ecm/Ducale), ma un solista come Thomas Zehetmair complice il suono Ecm rendono questa musica immersa in un panorama di lucida aperta tecnologicità. Col solo piano di Aki Takase in Hokusai (Intakt/Ird) si respirano a pieni polmoni gioia, invenzione, avanguardia ed edonismo.

GUIDO MARIANI
Il dolore per la morte del figlio quindicenne è diventato per Nick Cave un viaggio alle radici dei sentimenti e una ricerca di una spiritualità che possa fare spazio alla speranza. Ghosteen (Bad Seeds Ltd.) è una tragica elegia dedicata a un ragazzo che non tornerà più a casa e che vede in primo piano due genitori che vivono di sogni, ricordi, illusioni e gesti disperati. «Sei nella stanza sul retro a lavare i suoi vestiti» recita un verso della title track, mettendo in scena una delle immagini più strazianti dell’album. Nella perdita anche l’assenza è presenza, ma canta Cave: «Non c’è niente di sbagliato nell’amare qualcosa che non puoi stringere tra le mani». L’omertà del mondo del rock nell’era dei sovranismi inizia a diventare preoccupante, per fortuna ci sono i Bad Religion che sono in età da pensione, ma in Age of Unreason (Epitaph) non hanno paura di urlare il loro sdegno. Canta Greg Graffin: «Come volete essere ricordati, per la generosità o per la vostra maledetta mostruosità?». Che le giovani band prendano nota. Dopo 13 anni senza album i Tool hanno dimostrato di non essere tra coloro che vengono dimenticati, ma di far parte di quelli di cui si sente la mancanza. Fear Inoculum (Tool Dissectional/Volcano/Rca),che ce li riporta meno metal e sempre più progressive. Sei brani principali che durano più di dieci minuti l’uno e che sono universi a sé stanti: virtuosistici, temerari e sempre unici. Anche i Baroness con Gold & Grey (Abraxan Hymns) trascendono stili ed etichette. Espandono ulteriormente il loro rock: un sound volutamente ruvido e grezzo che coniuga psichedelica, hard anni Settanta, stoner e prog. Nell’anno delle sue 70 primavere Bruce Springsteen ci rivela la sua anima più western. Non solo country, ma anche sound californiano anni Sessanta, Western Stars (Columbia/Sony Music) è l’ennesimo esempio di come i veri artisti siano sempre in viaggio.

ANTONIO BACCIOCCHI
Un’annata felice il 2019. Magari non ha consegnato capolavori irrinunciabili ma dischi eccellenti sì, soprattutto in virtù di un’estrema varietà di proposte, produzioni di alto livello, anche da parte di una serie di vecchie glorie, sempre in formissima. A partire da Encore (Universal) degli Specials, clamoroso ritorno, intensamente politico, in cui mischiano reggae, funk, soul, stupendi groove. Un affresco crudo e fedele dell’Inghilterra della Brexit. Disco dell’anno senza se e senza ma. In ambito soul Michael Kiwanuka firma il terzo album della carriera con Kiwanuka (Polydor) in cui scrive una sorta di enciclopedia della black music, citando i grandi del genere (da Curtis Mayfield a Marvin Gaye) con personalità, carattere e grandi canzoni. Nick Cave scrive uno straziante epitaffio al figlio scomparso in Ghosteen (Bad Seeds Ltd.). Difficile reggere la portata dell’impatto sonoro ed emotivo. Un disco che ha diviso pubblico e critica ma che avrà la giusta gratificazione con il tempo. Il nuovo capitolo della storia senza fine degli Who si chiama Who (Polydor), non è sicuramente tra i loro migliori album, né fa gridare al miracolo. Ma è talmente tanta la passione e l’energia profuse che merita una citazione, soprattutto per affetto e gratitudine ma anche per il coraggio di continuare a mettersi in gioco e a riuscire ancora a impartire lezioni di stile a parecchia gente. Uno spazio per la musica italiana, sempre ricca di buone sorprese, conferme e lavori che possono tranquillamente competere, da tempo, anche all’estero. Scelgo gli outsider Piaggio Soul Combination con This Is (Irma Records) in cui spazzano via ogni concorrenza in ambito soul, northern soul, latin jazz, funk, con una competenza, una cura e una capacità compositiva comune a pochi.

MARCO RANALDI
Come finire in bellezza questo 2019 dai tanti trambusti? Sedendosi davanti al caminetto (anche a pellet) e con Santa Claus come spirito guida e iniziare a sentire con uno stereo possibilmente valvolare (di quelli di un tempo a compressori di suoni) i 5 «best of the world» dei cd dell’anno. Maestro dell’anno e di sempre è Bruno Canino che, nella sua infinta modestia ha scelto di incidere con tantissimi musicisti come il caso della flautista Luisa Sello; il cd è All’Italiana (Stradivarius ) e comprende un bel po’ di quella letteratura scritta o arrangiata da vari compositori per flauto e piano. Da urlo! Sul versante del relax ricercato è certamente bello il cd di Paolo Fresu e Paolo Silvestri direttore dell’Orchestra Jazz del Mediterraneo che insieme hanno pensato il bellissimo cd Norma, un omaggio a Vincenzo Bellini che vi sorprenderà (Tuk Music). Diversa la vita per Banda Jorona che magnificano una sorta di romanità astrale nel cd Io so’ me (Squilibri) che solo per I fascismi merita il palmares d’onore rosso. Come sempre Tosca ha in sé una grandissima eleganza e tanta forza creativa. Nel cd Morabeza (Sony Music)c’è un viaggio interiore, incantevole e fortissimo. Nel silenzio dell’abate lucente. Per finire il giustissimo omaggio a uno dei più grandi direttori d’orchestra, Mariss Jansons, che ricordiamo con uno dei suoi preferiti autori, Caikovskij. La quinta Sinfonia diretta con quella grandissima musicalità che era nelle mani di Jansons. Per la memoria dei suoni migliori. Così come tutto il rosso, dal vino a Santa Claus che renderanno felici (si spera) i giorni della fine di questo 2019.

GIANLUCA DIANA
Agli archivi l’anno 2019, che passerà alla memoria per un congruo bilanciamento tra vecchio e nuovo. L’inossidabile Bobby Rush, definizione migliore non esiste, primeggia con Sitting on Top of the Blues. Classe, stile e una verve compositiva che fa invidia a centinaia di colleghi. Inutile elencarne tratti biografici, premi, età artistica e anagrafica. Basti solo sapere che contemporaneità e tradizione hanno ragione d’essere in questo strepitoso album. Proponiamo il brano Hey Hey Bobby Rush. La gioventù african-american del blues ha il suo alfiere in Gary Clark Jr. che entra nel futuro con la title-track This Land (Warner). Il texano passa al livello superiore coniugando al meglio la scrittura delle liriche e quella musicale, permettendosi il lusso di dare un senso all’elettronica nel blues. Roboante anche l’affermazione del pakistano Ustad Saami: God Is not a Terrorist (Glitterbeat), ne esalta la straordinaria vocalità melismatica. Un lavoro che riassume una carriera iniziata negli anni Cinquanta, attingendo dalla musica classica indiana ed elaborando lo stile vocale chiamato khayal. Per voi My Beloved Is on the Way. Oltre gli steccati di genere anche The Comet Is Coming, che in Trust in the Lifeforce of the Deep Mistery , compiono un miracolo compositivo, rendendo il loro jazz fruibile a ogni età e luogo, incluso il sacro suolo del dancefloor. Si ascolti in proposito Summon the Fire. Un esempio notevole che ne testimonia le capacità. Finale ad appannaggio dei Mamiffer, capaci di rendere The Brilliant Tabernacle una sessione di registrazione senza tempo, dove post-folk, ambient ed electro, sono in omeostasi totale. Lasciando inoltre spazio alle melodie con sagacia e perizia. Il meglio in Hymn of Eros.

STEFANO CRIPPA
«C’è ancora speranza in questa terra/civilizzata soprattutto dai poeti». Vorremmo avere lo stesso ottimismo di Mina e Fossati, ma per rallegrarci in questo 2019 fitto di crisi e di conflitti, ci accontentiamo del loro splendido incontro. Mina Fossati (Pdu/Il viaggiatore/SonyMusic) mette in fila undici canzoni scritte come raramente accade, e interpretate dal cantautore e dalla icona cremonese badando più al cuore che alla tecnica ma con un afflato di rara intensità. Tanto cuore – e testa – nel ritorno di Bruce Springsteen, Western Stars (Columbia/Sony Music). Cambiamento e progresso ma anche il (giusto) timore per un orizzonte quanto mai fosco nelle canzoni che compongono questo disco, ispirato e melodicamente grandioso, con arrangiamenti orchestrali dal gusto cinematico. Al mondo si apre anche Veronica Louis Ciccone al secolo Madonna. Madame X (Interscope/Universal) sarà ricordato come il suo disco di minor successo, inevitabile scotto da pagare per il coraggio di un lavoro elettronico fino al midollo ma ricco di suggestioni estrapolate dalle musiche del mondo. Malinconica e ironica, mai banale, Lana Del Rey è una delle più dotate songwriter americane, e anche Norman Fucking Rockwell! (Universal) è qui a testimoniarlo, basta solo l’ascolto della lunga suite Venice Bitch per conquistare il più recalcitrante fra i cuori solitari… Nell’eccellenza di questi dodici mesi in musica, non poteva mancare Michael Kiwanuka; cresciuto ascoltando vinili Seventies sa coniugare come pochi la passione per il soul moderno con agganci al passato. In Kiwanuka (Interscope/Polydor) sfoggia la sua voce limpida ed espressiva al servizio di brani potenti, ancora una volta affidati per la parte produttiva a Danger Mouse e Inflo. Un album sulla conquista della propria identità e una manciata di pezzi di alta scuola, un cocktail di influenze soul, funk e afrobeat.

LUIGI ONORI
Anno di ricca produttività per Paolo Fresu (da Chet Baker alla Norma) ma l’avventura sonora più riuscita è quella realizzata con Daniele Di Bonaventura, Orchestra da Camera di Perugia e Gruppo Vocale Armoniosoincanto: Altissima luce. Laudario di Cortona (Tuk Voice). 13 laude medioevali emergono dal passato in diverse chiavi di lettura ritmico-timbrica, restano antiche ma suonano contemporanee senza nulla perdere in spessore emotivo. Audace, dal canto suo, la sfida lanciata e raccolta dal pianista Enrico Intra che in Soundplanets (Taste Rec) fa interagire il suo genio improvvisativo con le sonorità elettroniche di Alex Stangoni e il trip-hop di Rick Nizzy. Fondendo piano solo, remix e sound designer, il jazz cambia connotati ma mantiene la sua essenza: Dorfles e Floating colpiscono per la loro futuristica jazzità. Un filo storico-cronologico lega i 12 brani di Mare 1519 (Parco della Musica Records) della Lydian Sound Orchestra di Riccardo Brazzale. Si va dai viaggi circumnavigatori di Magellano ai profughi affogati nel Mediterraneo nel 2019, passando per i Padri Pellegrini, Robinson Crusoe, Lennie Tristano, Nick La Rocca e Neil Armstrong. Migrazioni storico-sonore con incursioni in Monk, Ellington, Davis. E Immigrance (GroundUp Music) si chiama l’ultimo cd del collettivo Usa Snarky Puppy, guidato e prodotto da Michael League. Strepitosi dal vivo, seguiti da un pubblico in gran parte extrajazzistico, gli Snarky Puppy non amano Trump e generano una musica che si nutre di tanti linguaggi, della diversità sonora e umana che diventa valore. Chi la sa lunga sugli esili, l’apartheid e l’umanità è l’85enne pianista e compositore sudafricano Abdullah Ibrahim: con The Balance (Gearbox) riporta la sua musica in una dimensione di gruppo attraverso l’ensemble Ekaya. Insieme si impegnano in un «processo che supera le barriere» in direzione del «naturale ritmo dell’universo» che risuona, possente, in Jabula, Skippy, Devotion.

MARCO DE VIDI
Emozionante, introspettivo, magnetico. Ecstatic Computation (Editions Mego), l’ultimo lavoro di Caterina Barbieri, compositrice italiana di musica elettronica, esplora le molte potenzialità dei synth modulari. E attraverso i suoni artificiali si insinua, ci contagia, ci raggiunge l’anima. Conducendoci all’estasi e alla meraviglia. Ayse Hassan, in arte Esya, bassista delle esaltanti Savages, negli ultimi mesi ha pubblicato tre ep autoprodotti, ognuno in 300 copie. In Absurdity of ATCG (I)/(II) (Autoproduzione), drum machine, basso, voce, tra post-punk ed elettronica, testi visionari e criptici, affrontano l’assurdità dell’essere umani. Le profondità raggiunte causano vertigini. Kim Gordon, fondatrice dei Sonic Youth, esordisce a 66 anni con il suo primo album solista, No Home Record (Matador/Self), scritto a Los Angeles. Ricordandoci in pochi secondi perché è ancora lei la regina della scena alternativa: un sound aggressivo, potentissimo, elettronica e (ovviamente) noise sconvolti, con ironia, come solo lei sa fare. Una terapia musicale per guarire le ferite del genocidio rwandese. The Good Ones sono un trio che si muove tra musica tradizionale, folk, blues e bluegrass per cantare in Rwanda, You Should Be Loved (Anti-/Self) l’amore di una terra che ha deciso di non odiare più. Con incursioni di ospiti notevoli, come Tunde Adebimpe dei Tv on the Radio o Joe Lally dei Fugazi. Field recording, ambient, elettronica, violoncello in The Svalbard Suite (Hypershape) dei Blind Cave Salamander. I suoni dell’arcipelago artico come una lunga composizione, l’ineffabile bellezza e l’immensa fragilità di queste terre messe in musica. Merito di Paul Beauchamp e Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen) con contributi di Julia Kent e Xiu Xiu.

VILMO MODONI
Se è vero che anche nel 2019 sono mancate le grandi narrazioni sonore, è anche vero che alcune storie musicali sono state davvero interessanti. A partire da alcuni piacevoli ritorni. Uno in particolare per quello che ha rappresentato con i suoi Hüsker Dü, e proprio per il suo passato fa strano vederlo con la barba ben coltivata e una pelata da capo-contabile; poi però Bob Mould imbraccia la chitarra e riemerge subito l’inventore dell’alt rock che tutti conosciamo. Davvero bello il suo Sunshine Rock (Merge), un ottimo album rock che ha come tema ricorrente il sole, inteso come energia interiore, come il calore che custodiamo all’interno e ci spinge a dare sempre il meglio. Un ottimo ritorno, dopo nove anni dall’ultima produzione, è anche quello di Sean O’Hagan, autore irlandese a cui va l’Oscar come leader di gruppi tra i più sottovalutati della storia del pop: parliamo di Microdisney e High Llamas, di cui il nostro è stato fondatore e autore principale. Radum Calls, Radum Calls (Drag City) vede O’Hagan alle prese con un suono mite ed etereo, piacevolmente in bilico tra bossanova e chamber pop, riferimenti a cui va aggiunta una punta psichedelica tipicamente british. Di tutt’altra possanza è invece The Crucible (Stickman) dei Motorpsycho, album in cui i nostri norvegesi preferiti riescono ancora una volta, come pochi altri, a mischiare generi distanti tra loro alla maniera dei veri fuoriclasse. Menzione speciale per le armonie vocali, a oggi superiori di una spanna rispetto a ogni altro gruppo sulla scena rock internazionale. Cambiamo ancora una volta genere ricordando come il 2019 resterà a lungo nella memoria dei Big Thief: la band di Brooklyn se ne è infatti uscita con ben due dischi, uno pubblicato a maggio, l’altro a ottobre. Forse migliore il primo, U.F.O.F. (4AD/Self), rispetto al secondo Two Hands (4AD) non fosse altro per il livello di profondità quasi mistica raggiunto in U.F.O.F. dalla scrittura di questa band, che vede nella chitarrista-cantante Adrianne Lencker una delle autrici più interessanti e sensibili del momento. Non è usuale imbattersi in canzoni che parlano d’amore, lutto e nostalgia, temi cruciali nelle composizioni dei Big Thief, così come è confortevole l’incontro col folk rock dolce e intristito del quartetto statunitense. E grande folk è anche quello che propone Bill Callahan nel suo Shepherd in a Sheepskin Vest (Drag City). Un disco intenso, con ben venti brani in scaletta, sontuosità che neppure per un minuto lo rende uggioso, perché caratterizzato da grande essenzialità e da un sottile background pop che ne pervade l’impianto e lo valorizza anche in chiave commerciale.

GRAZIA RITA DI FLORIO
Nell’anno in cui l’Unesco ha dichiarato il reggae Patrimonio dell’Umanità, nella (nostra) «top» del 2019 la presenza marziana del decano del dub giamaicano surclassa le altre, non solo per diritto dinastico. Lee «Scratch» Perry, ha ripreso il controllo del mixer e risalito la china, piazzando un paio di colpi da par suo. Si è chiuso nella camera d’eco col santo patrono della On-U Sound, Adrian Sherwood che ha prodotto Rainford e il suo doppio dub, Heavy Rain, recentissimo, con una comparsata del vecchio amico, Brian Eno, e due inediti. Spettacolo, il dub oscuro, pomposo, fulminante di African Starship, e Scratch che fa le macumbe per scacciare gli spiriti maligni. History Say (Baco Records), la title track che dà il titolo all’ultimo disco di Clinton Fearon, ha il tono caustico di Chatty Chatty Mouth dei suoi (ex) Gladiators. Ma questi moniti non passano mai di moda. Qui il barbuto storyteller aggiorna la sua tavolozza «roots» proponendo una miscela di ritmi sincopati, e fa il vuoto alle spalle, di ogni revival. «Il ritmo prima di essere musica è l’architettura dell’esistenza» scriveva Léopold Sédar Sénghor. Niente di più evidente nella musica degli Steel Pulse. In questo 2019 hanno finalmente dato alle stampe Mass Manipulation (Rootfire/Wiseman Doctrine), dopo un lunghissimo silenzio discografico. Un disco che conserva lo spirito vigile e il realismo critico per cui vanno noti. In Francia, il reggae diasporico ha trovato una voce autorevole nei Dub Inc. Brividi e sogni di rivoluzione passano anche attraverso le canzoni, anzi gli inni come Nos armes, nel convincente, Millions (Diversité). Nella cinquina d’oro (in lizza col groovoso Nouvel R dei marsigliesi Raspigaous), mettiamo infine il mini-album, Rocking My Ep (Baco Records) di Baco & The Urban Plants. Molto stile, reggae e folk delle Comore.

SIMONA FRASCA
Il rock and roll è roba da adolescenti, affermazione dura da demolire di fronte all’evidenza della spinta sonica del quartetto White Reaper e nonostante le belle argomentazioni del saggio sessantenne Thurston Moore che rivendica la valenza sovragenerazionale del genere. Fatto è che You Deserve Love (Elektra), uscito in coda all’anno, è una macchina di gioia garage rock che ruba le chitarre ai Thin Lizzy, i bassi agli Strokes e la voce direttamente a Marc Bolan. A Nashville, mecca del country folk nasce il secondo capitolo della joint venture Calexico-Iron and Wine, che riplasmano in Years to Burn (Sub Pop/Audioglobe) il comfort del country rock di Crosby e Nash in un sapiente ed elegante «slow listening» che cresce di senso con il passare degli ascolti. Musica e vita ne bellissimo primo studio album dei Delines, The Imperial (Decor Records). Rétro country band con un talento innegabile nel raccontare storie attraverso un suono neo soul icastico che rimanda alle atmosfere meditabonde del cinema di John Ford e Clint Eastwood. Bbuoni frutti dalla Scandinavia nel campo, si vede non ancora ben dissodato, dell’aussie rock and roll con Before Brutality (Drabant Music) dei Dogs. Questi cani norvegesi fanno la guardia a gente come AC/DC, Wipers e Dead Boys. All’origine delle loro canzoni c’è rabbia, dichiarata solco dopo solco già dalla prima traccia. Disco tosto tutto l’anno. In The Eagles Of Death Metal EODM Presents Boots Electric Performing the Best Songs We Never Wrote (Ume) troviamo 13 pezzi desunti dal grande libro rock e pop degli ultimi 60 anni. Kiss, Ramones, George Michael, Cat Stevens, Bowie, Guns N’ Roses, Mary J. Blige riletti in una più che efficace rivisitazione hardcore punk lo-fi e rumorista da Jesse Hughes. C’è anche Abracadabra il tormentone della Steve Miller Band.

GUIDO MICHELONE
In questo natale 2019 regalare i dischi di jazz italiano sembra una buona idea, soprattutto per i grandi passi in avanti che il «sincopato tricolore» sta compiendo negli ultimi anni, senza più emulare pedissequamente i modelli americani, ma confrontandosi con essi, per trovare utili insegnamenti espressivi. Ed è proprio su quest’asse Italia/America che segnaliamo cinque nuovi cd a partire da Sacred Bond (Jazzline/Ird), dove marito e moglie guidano, assieme, per la prima volta, un’allegra fusion band: si tratta di Randy Brecker (tromba e flicorno) e Ada Rovatti (sax tenore e soprano), a sposare esteticamente la funkietudine del jazz elettrico, giocando in casa (New York) con un ottetto di big star (Kikoski e Beard su tutti). Matrimonio solo artistico invece per Michel Godard (unico jazzman a suonare il medievale serpente) accanto a Francesco D’Auria, percussionista in Amor sospeso (Abeat): suoni arcaici e spinte avanguardiste s’intrecciano in 10 original che acquistano ulteriore fascino per la registrazione in presa diretta nella chiesina di Rima San Giuseppe in Valsesia. Anche i giovani non sono da meno: l’Andrea Domenici Trio in Playing Who I Am (Abeat), oltre il leader al pianoforte, vanta una ritmica spaziale (Peter Washington e Billy Drummond) per un tributo diretto e non alla musica di Thelonious Monk. Il Sergio Armaroli Trio con Giancarlo Schiaffini e Walter Prati e con lo statunitense Cartoon (Roger Turner, Chris Briscoe, John Pope) in TrioPlusTrio (Dodicilune) propone un radicalismo improvvisato estremo, mentre il quartetto UJIG, metà milanese metà austriaco, in The Necessity of Falling (Bluescore) conferma le ottime impressioni dell’esordio con 8 out of 8 proponendo una riuscita combine di sperimentazione ed elettronica, anche grazie agli interplay fra ritmi (Krattler e Ambrosh), chitarre (Leo), tastiere (Maggioni).

LUCIANO DEL SETTE
Cosa saremmo senza immaginazione? Eppure il nostro tempo prova a togliercela, sostituendola con Instagram, selfie, amicizie virtuali, emozioni formato videogame. Lo racconta Daniele Celona in Abissi tascabili (Comicon), dieci brani che diventano altrettante storie a fumetti. Il cantautore torinese, sulla scena indie dal 2012, raggiunge qui la piena maturità artistica. Prova ne sia la splendida Lupi nel buio. Se già avevano meritato applausi per i due lavori precedenti, Belighted e Lighthouse, The Bell (Kscope/Audioglobe) consacra il duo russo Iamthemorning, Gleb Kolyadin piano e Marjana Semkina voce. Il tema dell’umana crudeltà viene declinato guardando a cicli di canzoni ottocentesche, su cui si innestano rock, folk e classica. Nella corte dell’Arbat (SquiLibri, cd + libro), di Alessio Lega, ha vinto il Tenco 2019, categoria Miglior interprete. L’album ci restituisce la poesia e la musica di Bulat Okudzava, che nella Mosca degli anni Sessanta «osò» cantare le speranze di un popolo intero e il quartiere dell’Arbat, dove pulsavano più forti. Brani struggenti ed evocativi, tradotti da Lega con infinita cura. Michel Petrucciani se n’è andato giusto vent’anni fa. Lo ricorda il doppio album Colors (Dreyfus Jazz/Bmg), diviso tra registrazioni in studio e live all’Alte Oper di Berlino, Blue Note di Tokyo, Petit journal Montparnasse di Parigi, dal ’94 al ’97. Immenso e due volte meraviglioso Michel. Tre anni a girare il mondo in tour, e adesso un disco, Morabeza (Leave Music/Sony Music), che ne è riassunto. Tosca e i suoi amici Lenine, Ivan Lins, Luisa Sobral, tanto per citare, sono autori e complici di un raffinato melting pot sonoro dagli accenti lusitani, francesi, arabi, italiani e romaneschi. Così come Morabeza è miscela interiore di saudade e allegria.

FLAVIO MASSARUTTO
Se non li avete già procuratevi gli altri tre volumi; nel frattempo nel perdetevi Coin Coin Chapter Four: Memphis (Constellation) della sassofonista Matana Roberts. La musicista continua la sua opera di ricostruzione e riflessione sulla storia degli afroamericani dalla schiavitù ai giorni nostri macinando memorie collettive e familiari, folklore, New Orleans, free, canto e poesia orale. Si rifà esplicitamente alla lotte per i diritti civili, attualizzandole, il musicista, artista e cantante Damon Locks con il suo Where Future Unfolds (International Anthem) dove sono all’opera quattro musicisti e sei cantanti (ma il progetto prevede anche sei danzatrici) per un oratorio tanto semplice nella formazione che potente nei risultati. In quel disco ai clarinetti c’è Angel Bat Dawid, al secolo Angel Elmore, che fa il suo esordio con The Oracle (International Anthem) dove suona tutti gli strumenti, oltre che cantare. Il disco è stato registrato sul suo telefono e poi editato. Uscito in un primo momento solo in digitale e audiocassetta è stato poi pubblicato in cd e vinile. Spiritual jazz ruvido e lo-fi. Il suo nome gira sempre con più insistenza e sarà una delle protagoniste del jazz di domani; la trombettista Jaimie Branch ha tutte le carte in regola: idee, tecnica, cuore. E lucidità politica. Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise (International Anthem) è un disco strepitoso. Le suona e le canta ai razzisti e fascisti con la gioia e l’energia del grande jazz; senza aggettivi. Chiude la cinquina un omaggio a un musicista che non va dimenticato. Prayer ( We Insist!) del collettivo Pipeline 8 , arrangia sei composizioni del sassofonista Steve Lacy. Ne viene fuori un omaggio sontuoso e libero da timori reverenziali. Proprio come sarebbe piaciuto al Maestro. Eccezionali tutti i musicisti.

GUIDO FESTINESE
Gran messe disordinata di bei dischi, quest’anno, alla faccia della liquefazione dei supporti e dei click sostituiti ai sacri riti del poggiare un vinile sul piatto, o inserire un cd nella fessura: situazione eccellente. A cominciare dall’orchestra jazz più travolgente e spietatamente lucida che ci sia in circolazione oggi, La Fire! Orchestra, col punto esclamativo nel nome a ribadire che non si scherza con le temperature torride e le ballad sornione pronte a deflagrare in muraglie minacciose con gli spunzoni free piantati in cima. Il nuovo disco è Arrival (Rune Gramophon). Lavora di finezza con precisione chirurgica Paolo Silvestri con l’Orchestra Jazz del Mediterraneo per gli arrangiamenti del magnifico Norma, evansiano e pastoso contorno per la tromba impeccabile di Paolo Fresu a volteggiare su Bellini. Chi avesse voglia di perdersi in solitudini antartiche con una manciata di brani che ritrovano la magia perduta di Simon Jeffes si ascolti A Handful of Nights (Erased Tapes), il nuovo disco della Penguin Cafe, colonna sonora per un documentario di Greenpeace sull’Antartico e la minaccia di perderlo diretta dal figlio Arthur. Musica che sembra arrivare dal nulla, svaporata e malinconica, dolcissima e imprendibile. Chi vuole emozioni più rumorose si rivolga ai gloriosi Hawkwind del nuovo All Aboard the Skylark, cinquant’anni festeggiati con un’impeccabile prova di space rock, secondo cd con clamorose rivisitazioni di brani storici in acustico. Il disco rivelazione dell’anno lo individueremo in Tan Man’s Hat di Sean Noonan Pavees Dance (RareNoise). In azione accanto al folle batterista c’è Malcolm Mooney, la prima voce dei gloriosi Can di mezzo secolo fa, e il basso free funk di Jamaaladeen Tacuma. Non è rock, non è jazz. È intelligenza musicale in azione.

ANDREA LANZA
Al primo posto di questa top five del 2019 inseriamo senza dubbio l’ultimo album delle idol punk Bish, Carrots and Sticks, uscito in Giappone per l’etichetta Avex Trax. Questo loro lavoro si presenta come un disco aggressivo, violento e dalle sfumature romantiche impreviste. Al secondo posto Adrian, uscito per l’etichetta Clan/Universal Music Italia: un doppio cd contenente un book disegnato da Milo Manara. I momenti più interessanti sono le musiche di Nicola Piovani, bellissime e struggenti, composte per la serie animata omonima. Altro disco interessante è Paprika di Myss Keta, uscito per la Universal, la nostra risposta (t)rap a Lady Gaga con moltissime canzoni orecchiabili e un certo gusto nella satira sociale come per la bella Una donna che conta. Un album all’apparenza banale, ma pungente, all’insegna di sound mediorientaleggianti e dai contenuti espliciti, che vanta la collaborazione di nomi come Gabry Ponte, Gemitaiz, Elodie, e Gué Pequeno tra gli altri. Altro disco interessante è quello di Cabo al secolo Gianluigi Cavallo, ex frontman dei Litfiba nel periodo di pausa di Piero Pelù, e tornato alla ribalta con il suo Base ribelle, un album autoprodotto. Si tratta di un cd rock potente, dai testi duri ma poetici, contaminato da una inaspettata musica etnica che lo rende opera bizzarra e originale. All’ultimo posto, in una classifica di numeri 1, si posiziona l’eccezionale Ghosteen di Nick Cave, uscito per l’etichetta Bad Seed Ltd., un disco di una forza emotiva unica, un atto d’amore doloroso di un padre che elabora con la musica la tragica morte del figlio. L’apporto essenziale di Warren Ellis con i suoi arrangiamenti crea tappeti sonori elettronici quasi da drone music in un disco più prog che rock.

CAMILLO VEGEZZI
Non una classifica, ma cinque segnalazioni in ordine sparso tra le uscite discografiche fondamentali di questo 2019, l’ultimo degli anni Dieci. Nel complesso, un’annata cospicua, tra sorprendenti novità e grandi ritorni. Tra questi, a spiccare è sicuramente quello di Nick Cave, che con i suoi Bad Seeds ha pubblicato Ghosteen (Bad Seeds Ltd.), il seguito ideale del precedente Skeleton Tree. Un’opera intima, intensa e complessa, emozionante e straziante al tempo stesso. Tra drone music, spoken word e rock, il risultato è un disco quasi gospel, da ascoltare attentamente e conservare a lungo. Il 2019 è stato anche l’anno del ritorno dei due leader indiscussi – ognuno col proprio progetto solista, naturalmente – di una delle band più influenti degli ultimi decenni, i Sonic Youth. Thurston Moore, con Spirit Counsel (Daydream Library Series), prosegue il suo viaggio nei territori del noise e dell’improvvisazione strumentale, riuscendo nell’ardua impresa di rendere accessibile e immediato un album decisamente sperimentale e avanguardistico. Alice Moki Jane – un’ouverture che supera l’ora di durata – è un brano potente e ipnotico, omaggio a tre figure femminili per lui fondamentali dal punto di vista musicale, artistico e politico: Alice Coltrane, Moki Cherry e Jayne Cortez. Kim Gordon, invece, ha pubblicato per Matador Records il suo primo vero lavoro solista, intitolato No Home Record. Un album spiazzante e straripante tra no-wave, trip-hop, punk e taglienti spiragli elettronici: le tematiche affrontate e i testi – a tratti autobiografici – restituiscono una delle più lucide letture della contemporaneità. Per quanto riguarda la «nuova scuola», un album da segnalare è Titanic Rising, della cantante americana Weyes Blood, uscito per Sub Pop: melodie psichedeliche dilatate e atmosfere pop anni Sessanta in cui risulta evidente una spiccata originalità e capacità compositiva. Un piacere da ascoltare e – considerati i particolarissimi video prodotti in accompagnamento ai singoli – da guardare. Infine, una menzione necessaria dall’Italia: l’album di esordio, omonimo, del supergruppo I Hate My Village, pubblicato da La Tempesta International. La band è un collettivo formato da membri di gruppi cult della scena alternativa italiana (Bud Spencer Blues Explosion, Calibro 35, Jennifer Gentle e Verdena), uniti e mossi da una missione comune: portare le sonorità tuareg del desert blues nel nostro paese, declinandole a loro modo. A conti fatti, missione più che compiuta, grazie all’eccezionale tecnica dei musicisti e, soprattutto, alla resa live del disco, tra le più esaltanti dell’anno.

ROBERTO PECIOLA
Con l’espressione gergale «quanno a tordi e quanno a grilli», a Roma si intende l’alternanza di alti e bassi, di sfortuna e fortuna. Un’espressione che possiamo riportare anche alle annate musicali, che spesso alternano mesi in cui è difficile trovare anche solo pochi dischi degni di essere menzionati in una classifica e altri in cui, al contrario, dispiace dover lasciar fuori album più che notevoli. Per quanto ci riguarda il 2019 si inserisce in questa seconda schiera, e scegliere i cinque titoli più rappresentativi è stato quasi doloroso per quelli che non abbiamo potuto citare. Certo nessun dubbio ci ha sfiorati per quel che riguarda il disco dell’anno, lo aspettavamo da tredici anni e non ha deluso le attese, si tratta di Fear Inoculum dei Tool (Tool Dissectional/Volcano/ Rca), un lavoro che li conferma, a nostro giudizio, come la migliore band rock degli ultimi decenni, e tra le migliori di sempre. Sette brani, di cui sei lunghissimi, un fluire psichedelico che guarda sempre più al prog e sempre meno al metal, un capolavoro. Poi, senza ordine di preferenza, ci viene impossibile non citare gli Elbow, che con Giants of All Sizes (Polydor) danno ancora prova di saper scrivere raffinatezze pop come pochi altri, un po’ di maniera e mestiere, sicuramente, ma un gran bel sentire. Sonorità più spigolose per gli altri titoli, a cominciare dai Fontaines D.C., punk band irlandese che esordiscono alla grande con Dogrel (Partisan/ Self), non c’è l’urgenza rabbiosa degli Idles ma un album da non perdere. Una miscela di alt-rock, post-hardcore, psichedelia acida e post-punk per gli inglesi Hey Colossus, poco noti da queste parti ma giunti al dodicesimo album con il notevole Four Bibles (Alter). Infine citazione doverosa per il nuovo di Chelsea Wolfe. La cantautrice californiana con Birth of Violence (Sargent House) abbandona i suoni doom metal e drone in favore di un cupo intimismo dall’animo acustico, bellissimo.

FRANCESCO ADINOLFI
Sedici anni d’età ma già navigatissimo in quanto a suoni, arrangiamenti, efficacia melodica. Don’t Go Wasting Time (Chess Club) è il nuovo disco (ep, 7 pezzi) di Alfie Templeman di Carlton, 90 minuti da Londra. Canta e suona tutti gli strumenti, circondato dalla famiglia perfetta: sorella pianista e trombettista, padre che colleziona chitarre. Tra melodie sospese (suonate e al computer), pop letargicamente soul, testi su tensioni/umori adolescenziali e ritornelli da cui lasciarsi sopraffare. Ritorno delle ragazze scozzesi: Rachel Aggs e Eilidh Rodgers, ovverosia le Sacred Paws. Dopo Strike a Match del 2017 ecco Run around the Sun (Rock Action Records): un’ondata di pezzi influenzati da afrobeat (in particolare highlife) rutilante con infusioni di rock, vampireweekendismi, fiati a pioggia e riverenze nei confronti di Paul Simon. Irresistibili gli scambi vocali tra le ragazze, canto/controcanto, e la trama chitarristica prodotta da Aggs. Se esiste un modfather (Paul Weller), deve esistere per forza una modmother. Ed esiste: Fay Hallam. Il suo ultimo album Propeller (Well Suspect Records) condensa e perfeziona anni di band precedenti e collaborazioni (tra le ultime quella con lo svedese Magnus Carlson), tra botte di Hammond e sezione fiati a supporto, ritmi soul e Fay a condire con quella voce così riconoscibile. Avvincente anche 99 Cent Dreams (Yep Roc) di Eli «Paperboy» Reed, soulman bianco di Boston di base a New York. Pezzi rutilanti e ballate pacate intrecciano la tipica sensibilità pop e resa vocale che da sempre accompagnano l’artista. E poi quei falsetti strappacuore sono imperdibili. Polistrumentista, dj e produttore di Brighton, Flevans è in giro dal 2002. Adesso tocca al quinto album Part Time Millionaire (Jalapeno) in cui tira dentro voci come Elliott Cole, Laura Vane, Izo FitzRoy e Sarah Scott spalmate su funk, breaks, soul e electronica. Sorprendentemente arrangiato e curato.