Ecco i cinque dischi del 2023 scelti da Ultrasuoni, buone feste a tutte/i. E buon ascolto

GUIDO FESTINESE
Strategie di (r)esistenza in musica delle donne, con parole che non lascino margini a piccole e grandi ipocrisie da nascondersi sotto il tappeto. Tutto questo è il visionario This Woman’s Work (Parco della Musica), nuovo capitolo nella discografia proteiforme della Signora della voce Maria Pia De Vito, che s’è messa attorno giovani talenti in grado di innescare incendi sonori o brume languide. Una strategia per contrastare con (bella) musica il grande nulla reazionario che avanza? Procuratevi Un elegante disastro, di Belzer (MGA) undici affilate storie in musica in un indie rock cantautorale di pregio con parole ad alto, doloroso peso specifico che indagano ovunque, tranne che sul proprio ombelico. Strategie della memoria viva per il jazz che si abbevera alla Great Black Music di mezzo secolo fa, ma riesce ad ancorare all’oggi, senza nostalgia? Indispensabile per il 2023 Irreversible Entanglement, Protect Your Light (Impulse!). Furore, mestizia, poesia. Strategie per costruire art e prog rock senza retrogusto alla muffa e retromanie ossessive? Il segreto lo conosce, notoriamente, Steven Wilson, che con l’ultimo The Harmony Codex (Virgin) piazza uno dei suoi colpi più belli, raffinati e memori: come citare un passato glorioso senza calchi pedissequi. Strategia della continuità in azione? Stavolta il testimone è tra le mani di Arthur Jeffes, che sventola con eleganza compita (e non potrebbe essere altrimenti) la bandiera della Penguin Cafe. Quando si riaffaccia con i suoi pinguini è festa grande, con quelle melodie impossibili, svaporate e subito presenti che, in mano ad altri, sembrerebbero il festival dell’ovvio, e che loro invece sanno trasformare in pura filigrana sonora. L’ultimo arrivato è Rain Before Seven… (Erased Tapes).

SIMONA FRASCA
Un anno lungo i meridiani della geografia partendo dal Regno Unito. È una vera sorpresa The Ballad of Darren (Parlophone) dei Blur perché la band di Damon Albarn è uno di quei gruppi con i quali sei in sintonia quasi per pregiudizio. Dalle tracce emerge una dolcissima illusione, la foto di copertina, suggestiva come poche, è una promessa, uno studio visivo-prospettico in vibrazione con gli orizzonti emotivi che ne fanno un disco maturo e consapevole. Uno stile intimista e un po’ confessionale si fa largo nello splendido Chaos for the Fly (Partisan) di Grian Chatten. Il leader dei Fontaines D.C., qui alla prova solista, rievoca cose e persone, litanie cullanti, ballate più accese, un’immediatezza di sensi attraverso un sapiente uso del banco suoni. Dall’Irlanda giù in Africa, serpeggiante e ipnotica con Amatssou (Wedge) dei Tinariwen. L’eccezionale combo tuareg ha groove da vendere, motivazione e capacità tecnica e quanto l’una dipenda dalle altre è difficile da stabilire ma è certo che la musica può ancora fare la differenza quando recupera il suo valore simbolico. Stessa cosa per Bombino con Sahel (Partisan). Dopo averci girato intorno a lungo, non possiamo ignorare la bella (ulteriore) prova di quest’altro eccellente esponente del blues tuareg. Le sue distorsioni chitarristiche si avvitano l’una sull’altra e si lanciano in un rock solitario che urla nei profondi e misteriosi silenzi del deserto a noi più prossimo. Di nuovo al Nord, in Svezia. Per diluire consapevolezza e intimismo fin qui abbondantemente somministrati, l’ultimo ascolto spetta alla «demented band» per eccellenza The Hives con The Death of Randy Fitzsimmons (Disques Hives). Frenetico, divertente, ironico e ammiccante con tanto di benedizione di Benny Andersson, leggendario tastierista degli Abba.

LUIGI ONORI
La «tagliola» del Top 5 impone scelte non assolute ma rappresentative di estetiche, generazioni, organici: linee di tendenza in una produzione vastissima e internazionale, con supporti tra vinile e piattaforme. Si parte da Queen Size (la.reserve) del trombettista Francesco Fratini, in trio con G. Romagnoli e M. Bultrini. Talento precoce, a 20 anni a New York, richiesto da varie big band, Fratini guida un trio autoriale dalla musica complessa e ispirata, con un commosso omaggio a Carlo Conti. È ben oltre il «giovane talento». A 40 anni il saxtenorista e compositore afroamericano James Brandon Lewis è un protagonista del jazz mondiale. In For Mahalia, with Love (Tao Forms) racconta, con il superbo Red Lily 5tet, una figura emblematica in modo potente e non celebrativo, attualizzandone il messaggio sonoro e civile. Un leader. Polistrumentista è Francesco Chiapperini che con il suo nonetto ha inciso Transmigration (Splasc(h) Records): composizioni vaste e strutturate, aree di totale libertà, collettivo di giovani musicisti milanesi. Un progetto ispirato a John Surman declinato in modo personale e contemporaneo. Music Frees Our Souls Vol.2 (577 Records) del batterista cubano-statunitense Francisco Mela (con Cooper-Moore e William Parker) è parte di un omaggio a McCoy Tyner, con cui ha suonato per dieci anni. Organizzato in due macro-brani, il disco trasporta colori e ritmi tyneriani nella più intensa free improvisation. Organico di giovani (Rubegni, Ancillotto, Bortone, Polidoro), suono acustico/elettronico, rapporto parola/musica, elaborazione di testi letterari: il policromo This Woman’s Work di Maria Pia De Vito (Parco della Musica) è un ritratto sonoro (non riduttivo) delle «strategie di sopravvivenza delle donne in vari contesti storici o sociali». Intelligenza e creatività militanti.

ANDREA LANZA
Il miglior album del 2023 è senza dubbio, per chi scrive, Blondshell (Partisan), omonimo della sua stessa cantante, Sabrina Mae Teitelbaum. Già conosciuta come Baum, l’artista non era mai riuscita ad emergere particolarmente per colpa di testi e melodie troppo banali. Qui invece si rifà al rock sporco delle Hole, ma anche a Kathleen Hanna, PJ Harvey, Patti Smith e The Cure. Sabrina ormai Blondshell si sbarazza di Baum per graffiare attraverso il suo vissuto di dipendenze e amori sbagliati, regalando un album bello e che difficilmente ascolterete in radio. Non deludono neanche le italianissime Bambole di Pezza con Dirty (AAR Music), a distanza di ben 19 anni dal bellissimo Strike. Propongono un sound aggressivo molto anni Novanta, orecchiabile, impossibile da non amare. Lucky for You (Sub Pop) è il quarto album in studio dei Bully, progetto ideato dalla carismatica Alicia Bognanno. Ci si trova in una dimensione post grunge dalle influenze di pop melò, ma con testi incredibilmente graffianti e sofferti. Su Youtube un utente lo definisce «un disco che non si piange addosso ma affronta le merde della vita mostrando il dito medio». The Art of Forgetting (New West), quinto album di Carolyne Rose è una raccolta di ballate struggenti tra le quali emerge Miami, una dolorosa ed emozionante canzone non d’amore, ma di conoscenza amorosa. Chiude l’arrabbiato After Verecondia (Costello’s Records) di Marta Tenaglia. Un sound sinuoso, ipnotico che fa risaltare la voce interessante e ricca di sfumature dell’artista milanese. Fa pensare, fa persino ballare, alcune canzoni come Finestra ti fanno canticchiare, è un’esperienza che cresce ascolto dopo ascolto.

CAMILLO VEGEZZI
La novità più entusiasmante del 2023 sono i Brucherò nei Pascoli, direttamente dal quartiere milanese di via Padova. Palo (Woodworm) è il loro primo album: dieci tracce travolgenti tra punk, rap e tanto altro, in cui testi caustici e arrangiamenti underground restituiscono un’energia e una spontaneità che da tempo mancavano alla musica italiana. Armand Hammer è il nome dietro il quale si celano Billy Woods e Elucid, tra gli esponenti più originali della scena hip hop di Brooklyn. We Buy Diabetic Test Strips (Fatpossum) è un disco ipnotico e complesso, ma che – grazie anche a collaborazioni di qualità, dal producer JPEGMafia a Moor Mother e Shabaka Hutchings – si rivela un’opera densa, impegnata e di grande impatto. Vidrio (Unheard of Hope), del duo Titanic, e New Future City Radio (International Anthem), di Rob Mazurek e Damon Locks, sono musicalmente agli antipodi, ma rappresentano i due album più interessanti dell’attuale scena jazzistica sperimentale. Il primo – frutto della collaborazione tra la violoncellista guatemalteca Mabe Fratti e il polistrumentista venezuelano Héctor Tosta – è un disco di contrasti, tra post minimalismo e free jazz: violoncello, piano, sax ed elettronica accompagnano la voce di Fratti, creando atmosfere meditative ed estranianti. Il secondo, invece, è un concept album in cui i sample di Locks e la tromba di Mazurek immaginano i suoni di una radio pirata che trasmette da un futuro distopico: voci fuori campo, melodie estemporanee e improvvisazioni rumoristiche si mescolano, tratteggiando un mondo in fiamme ma indicando nuove forme di speranza. Infine, Fly or Die Fly or Die Fly or Die (World War) (International Anthem) della trombettista Jaimie Branch: l’emozionante e ricchissimo album postumo di un’artista scomparsa troppo presto.

FABIO FRANCIONE
Senza alcun preambolo. Forse qualche considerazione verrà presa in esame e messa a referto da altri. Ma, il 2023 musicale sarà inevitabilmente ricordato nei suoi esiti migliori dai nuovi lavori dei Rolling Stones e dei Beatles. Quest’ultimi, addirittura e solo con una »nuova» canzone, Now and Then (Calderston Productions), tecnologicamente recuperata con l’intelligenza artificiale sia dal demo originale del 1977 di Lennon sia nelle parti chitarristiche suonate da George Harrison e scartate nei provini del 1995. Qui non si è più nel campo delle registrazioni postume, ma in un’operazione “frankenstein” e il video del brano ne è la spregiudicata evidenza. Non da meno sono gli Stones che in Hackney Diamonds (Virgin Records) hanno utilizzato in alcune canzoni le tracce di batteria lasciate da Charlie Watts. Anch’egli defunto come i due Beatles. Trascorrono i decenni e una volta di più le due maggiori rock band di sempre (o chi di loro rimane) sembrano indirizzare verso sentieri ancora oscuri la musica degli anni a venire. Detto questo: restano tre slot su cui porre le migliori preferenze dell’anno. L’album dell’ensemble La Tempête, diretto da Simon-Pierre Bestion, Bach Minimaliste (Alpha-Classic), riesce nell’intento di incrociare in modo assolutamente inusuale brani del Kantor con composizioni contemporanee. Mentre, fermando la geografia ancora al mondo classico, il centenario della nascita ha portato in dote all’opera di Gyorgy Ligeti numerosi omaggi, tra monografie a tema, festival, concerti e uscite di album con rinnovate interpretazioni delle sue composizioni; pertanto giova segnalare tra i dischi del ’23, Gyorgy Ligeti. Kammerkonzert & Other Works (Harmonia Mundi) di Les Siècles diretto da François-Xavier Roth. Infineil ritorno alle radici di Concerto d’amore (audioglobe.it) di Marco Rovelli & Paolo Monti.

VILMO MODONI
Dicono di avere ¾ di materiale pronto per un nuovo album. Ma non sarebbe male se la storia dei Rolling Stones, almeno per quanto riguarda le produzioni in studio, si concludesse nel 2023 con Hackney Diamonds (Virgin). L’ultimo brano del disco, Rolling Stones Blues, sarebbe la chiusura perfetta del cerchio aperto il 17 ottobre 1961 al binario 2 della stazione ferroviaria di Dartford. Ancora ricca di prospettiva invece la carriera dei Foo Fighters, sempre che mantengano il livello di But Here We Are (RCA), lavoro che brilla per una canzone, The Teacher, dedicata da Dave Grohl alla madre scomparsa nel 2022. A marzo alle stampe anche il ventitreesimo album solista di Robyn Hitchcock, ad appena sei mesi da un predecessore che si era fatto invece attendere ben cinque anni. Ma non è questa prossimità temporale, insolita per un artista fresco di settantesimo compleanno, a stupire di Life After Infinity (Tiny Ghost). L’assoluta novità risiede piuttosto nel fatto che si tratta di un disco con undici brani strumentali, cosa insolita anche nel catalogo fuori dagli schemi di questo grande anticonformista del pop britannico. Per metà strumentali sono anche i dieci brani di Next Big Niente (La Tempesta Dischi) dei Bud Spencer Blues Explosion, un disco che lascia esterrefatti dalla quantità di suggestioni che propaga, pieno di suoni e idee che solo il cielo sa dove sono andati a pescare Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio. Dopo l’esordio nel 2018, quest’anno continua l’avventura di Boygenius, supergruppo femminile formato da Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus. Il loro The Record (Interscope) è stato definito un «istant classic» e, in effetti, fra squisite armonie vocali e brani tosti si disegna un disco del nostro tempo ma fuori dal tempo. Un classico, appunto.

STEFANO CRIPPA
Mescola le carte in tavola e rilancia. Jon Batiste – il genio di New Orleans – già autore del pluripremiato We Are, si staglia come miglior album nel 2023 con un altro piccolo capolavoro. World Music Radio (Verve/Interscope) è un viaggio incantato nel mondo del pop declinato in mille ritmi. Sessanta minuti di pura delizia e vien voglia di ricominciare… Da quasi trent’anni Kurt Elling è una sorta di istituzione del jazz vocale, ora in coppia (è il secondo disco) con il chitarrista Charlie Hunter ha pubblicato Superblue: The Iridescent Spree (Edition Records). Un cambio di rotta all’insegna del ritmo, senza scendere di intensità: puro divertimento quindi tra inediti e le note di Ornette Coleman, Ron Sexsmith e una rilettura di Black Crow di Joni Mitchell. Gioia per le orecchie l’album di Sampha, Lahai (Young). Ancora un passo in avanti in una sorta di percorso di autoesplorazione spirituale. Il disco si accompagna a un cortometraggio, la sua prima regia dal titolo Lahai: Time Travels Memories, scritto da lui stesso e co-diretto con il regista Caleb Femi. Venticinque anni dopo, si riformano (ma nella vita sono una coppia collaudata) Tracey Thorn e e Ben Watts, in arte Everything but the Girl. Fuse (Virgin/Universal) non delude le attese: è un disco essenziale – dieci brani per appena 35 minuti – ma di una intensità e una qualità rara. Nothing Left to Lose è un attacco da colpo al cuore. Jazz ma non solo: Cecile Mc Lorin Salvant ci ha abituati ad altissima qualità, e così anche Melusine (Nonesuch) non delude, anzi per l’occasione sfodera un concept che partendo dalla leggenda del serpente tiene insieme musiche del Trecento, accenni caraibici e classica. Lasciatevi cullare da una voce che ha pochi eguali nel mondo jazz.

FLAVIO MASSARUTTO
Una annata particolarmente buona per il jazz è cominciata con Eye of I (Anti-/Selfs) del tenorsassofonista James Brandon Lewis in trio, più ospiti, a ribadire l’assoluta preminenza nel panorama contemporaneo del suo suono. Segue lo straziante disco postumo della trombettista Jaimie Branch Fly or Die Fly or Die Fly or Die (World War)( International Anthem). Un testamento pieno di gioia e vitalità dove la musicista prematuramente scomparsa nel 2022 squaderna le sue doti di compositrice, leader e performer. Dalla danzante Baba Louie al selvaggio sabba punk tribale di Take Over the World un disco prezioso. Grande ritorno per la sassofonista Matana Roberts con il quinto capitolo del suo vasto affresco sonoro: Coin Coin Chapter Five: In the Garden (Constellation). Un’opera che parte dalle storie dei propri antenati per riflettere sul presente con recitativi, canzoni, registrazioni sul campo, musica scritta e improvvisata pescando nella tradizione afroamericana, blues, jazz, elettronica e altro ancora. I cinque capitoli, in ognuno dei quali Roberts utilizza diversi organici, sono già da considerare una delle più significative produzioni della storia del jazz. Come la musicista anche il batterista Mike Reed ci ha abituato a centellinare la sua discografia. The Separatist Party (Astral Spirit/We Jazz) è un disco asciutto, ricco e in molti momenti entusiasmante. Applausi per i musicisti, tra i quali il poeta Marvin Tate, tutti esponenti della scena di Chicago. Guarda infine a Mingus, al jazz della diaspora sudafricana e alla lezione olandese Banquet of Consequences (We Insist!) del contrabbassista Antonio Borghini, abile conduttore di un sestetto internazionale riunito a Berlino. Perizia strumentale, umorismo e senso collettivo del fare musica. In una parola: jazz.

MARCO DE VIDI
Back to basics: l’ultradestra minaccia le conquiste collettive, l’emergenza climatica di cui siamo causa incosciente ci sopravanza. Dobbiamo aggrapparci a quel che ci resta, principi, idee, rabbia resa azione, poesia. Aa.Vv. For Palestine (Paralaxe Editions): alla guida della label c’è Dania, musicista sperimentale, medico e araba della diaspora, di base a Barcellona. Da qui ha chiamato a raccolta più di 60 artisti, per una compilation di elettronica arrabbiata e piena di speranza, i cui proventi vanno ai medici di Gaza. Liturgy 93696 (Thrill Jokey): da anni la leader Hunter Ravenna Hunt-Hendrix destruttura l’universo metal, creando la sua cosmogonia mistica e filosofica per portare l’umanità all’emancipazione collettiva, mentre il suo percorso di donna transgender sgretola il sessismo e il machismo che caratterizza la scena. Mandy, Indiana I’ve Seen a Way (Fire Talk): band di Manchester, cantante parigina, che in francese mette in fila le offese che ogni donna è costretta ad ascoltare, denunciando gli orrori perpetrati ai migranti. Esordio pazzesco. Marthe Further in Evil (Southern Lord): le streghe sono tornate, riempiono le piazze, fanno rumore. Colonna sonora perfetta per la rabbia che invade le strade, il metal antico della italianissima one-woman band Marthe, dove si incontrano riot gggrl e Bathory, crust e punk anarchico. Da qui non si torna più indietro. Marta Salogni & Tom Relleen Music for Open Spaces (Hands in the dark): c’è una mappa blu nel disco, disegnata da Tom Relleen, per aiutarci a trovare la direzione, o a smarrirci. È quel che succede quando perdiamo qualcuno che amiamo, com’è accaduto alla produttrice e musicista italiana, che dalle registrazioni fatte in viaggio ha creato un album intimo, emozionante, profondo. Un sentiero per ritrovarci.

GUIDO MICHELONE
Tra le uscite discografiche più interessanti e originali nel jazz italiano 2023 si avverte una generale tensione a rivolgersi al mondo, con una prospettiva quasi internazionalista come, anzitutto, nei due casi francesi, a partire da Astrolabio mistico (Dodicilune) di Michel Godard e Roberto Ottaviano i quali, a mo’ di concept, rispettivamente alla serpentina e al soprano (più due vocalist e un suonatore di theorbo), raccontano la vicenda di Bianca Lancia (amante di Federico II di Svevia) inventando allettanti stili medievali con strumenti arcani, ma spirito innovativo. Anche Afternoon (Parco della Musica) del Federica Michisanti Quartet è composto per metà da solisti d’Oltralpe (Louis Sclavis e Vincent Courtois) bravi però, in questo caso, a creare un’atmosfera decisamente più contemporanea e aggiornata, ribadendo una via europea al jazz in grado di vitalizzare differenti modernità. Al Cile, o meglio alla memoria del folksinger Victor Jara (trucidato durante il golpe) viene dedicato Poema 15 (Encore Music) del sassofonista Daniele Sepe che fa un po’ il Gato Barbieri della situazione, circondandosi di cantanti, coristi e orchestrona (ben trenta presenze in tutto) onde evocare l’America Latina reinterpretata attraverso celebri brani protestatari. Anche Gulliver (Jando Music) di Brunod Gallo Barbero risulta un omaggio al folklore di tutto il pianeta (Cina, Etiopia, Kurdistan, Irlanda, Norvegia, Piemonte, Puglia) grazie a un sound cameristico imprevedibile, ben oltre il tipico guitar jazz trio, anche per l’uso di alcuni strumenti etnici. Infine, fuori tema, il Carl Philipp Emanuel Bach (Ecm) di un Keith Jarrett inedito è, indirettamente, la dimostrazione di come il jazz sperimentale possa suonare la musica colta occidentale, in maniera quasi filologica, ma riaffermando comunque una propria individualità esecutiva.

GIANLUCA DIANA
Quello appena trascorso è indubbiamente un anno di eccessi, nel bene e nel male, in cui si è gettato il cuore assai oltre l’ostacolo. L’euforia del post pandemia, le guerre già in essere ancor più sanguinarie, quelle sorte da poco e il cataclisma ambientale in atto, sopratutto fuori dalla fortezza Europa. A cotanta intensità, chissà quanto sono legate le produzioni musicali che più ci hanno destato interesse. Consapevoli che a questo arcano probabilmente non vi è risposta, elenchiamo le migliori uscite del 2023. Mattatore indiscusso è Jon Batiste, che non solo migliora il precedente We Are, addirittura lo surclassa con World Music Radio (Verve). È un disco totale con dentro il mondo di ieri e quello di oggi, fruibile ad ogni latitudine. Per comprendere a fondo il momento aureo dell’uomo di New Orleans, consigliamo la visione di American Symphony, documentario che lo vede protagonista. Il rock nelle sue forme contemporanee e alternative è esaltato dagli Algiers che in Shook (Matador/Self) sintetizzano rabbia, creatività ed energia, realizzando il loro migliore di sempre. Nel buio di uno dei peggiori penitenziari degli States, Ian Brennan trova invece la luce dei detenuti protagonisti in Parchman Prison Prayer. Some Mississippi Sunday Morning (Glitterbeat), dove pathos ed empatia prendono le forme dello spiritual e del blues nelle incisioni di chi vede la libertà preclusa. Un jazz senza confini capace di innovare ancora è quello dell’orchestra National Information Society che si esalta in Since Time Is Gravity (Aguirre/Eremite). Encomiabile la freschezza del loro approccio. Chiusura con l’incredibile volinista Violeta Vicci che in Cavaglia (Fabrique) mescola ambient, neclassica e drone. Non paga aggiunge un tocco psych che dona spiritualità a una pubblicazione emotiva e struggente.

MARIO GAMBA
Vince l’improvvisazione. Che l’ammettano o no nei circoli accademici, questo modo di fare musica eccelle. Gleam (Folderol) di Luigi Ceccarelli (al live electronics) e Gianni Trovalusci (ai flauti) è un prodigio di esplorazione tanto «insensata» quanto «razionalista» dello spazio esterno e interno (c’è anche l’intimità degli autori), un prodigio di tragitti sonori «senza gravità» e amabilmente consequenziali. Improvvisando senza programma alcuno Sergio Armaroli in Vibraphone Solo in Four Part(s) (Dodicilune) fa un passo importante verso l’individuazione dell’area della nuova musica. Che ovviamente non è un’area chiusa e anche definirla è più o meno un arbitrio. Comunque Armaroli sta tra le onde del post free (con ricordi di Hutcherson e Teddy Charles) e della contemporanea storica, ma ci sta trovando una rotta tutta sua di dolcezze/intimismi tutti sprigionati da un pensiero rigoroso, senza cedimenti. Improvvisazione su temi ma sul punto di rottura, sul punto di una rivolta musicale e sociale: ecco il succo dell’ubriacante Evening at the Village Gate (Impulse) di John Coltrane con Eric Dolphy, live del 1961 ritrovato in generosi archivi. Sono momenti in cui ci si chiede: c’è qualcosa di meglio del jazz? La risposta, per quanto settaria, è no. Deve averlo pensato anche Sylvie Courvoisier preparando Chimaera (Intakt) e la sua prima traccia Le pavot rouge con partner come Fennesz, Leo Smith, Nate Wooley. La pianista svizzero-statunitense ritrova funk, swing e free in clima quasi «gotico». Stregati. Ma persino il classico più classico può conquistare i nostri cuori/sensi/cervelli inguaribilmente ammalati di contemporaneità se si mettono assieme per confezionare l’album Prism V (Ecm) il produttore Manfred Eicher e il Danish String Quartet. Beethoven, Webern (che tanto classico non è nemmeno nel 1905) e Bach come non li avete mai sentiti. Idee più cerebrali che liriche, leggerezza poca, eppure gli sprazzi di luminosità inattesi, l’interrogazione di sé fino allo spasimo ci danno qualcosa di memorabile.

ANTONIO BACCIOCCHI
Un 2023 senza capolavori indimenticabili ma con tanta qualità diffusa. A partire dall’album postumo della jazzista Jaimie Branch Fly or Die Fly or Die Fly or Die (World War) (International Anthem), un assalto sonoro che partendo dal jazz, assimila un approccio punk, tribalismo, malattia, suoni disturbanti ma anche blues, gospel, funk, industrial. Ci sono dentro Miles Davis, Don Cherry, James Chance, Fela Kuti, i Creatures di Siouxsie, i P.i.L., free jazz. Un album che scuote, scava, brucia, taglia. When the Poems Do What They Do (Drink Sum Wtr) è uno splendido album della poetessa newyorkese Aja Monet («Freedom fighter» e «Brooklyn griot» l’ha definita Jazzwise per lo spessore dei testi), in bilico tra spoken word, jazz, funk, sperimentazione, blues, gospel, suggestioni afro, echi di Nina Simone, Last Poets, Gil Scott-Heron, Betty Carter. Un ammaliante e spettacolare gioiello di moderna black culture. Più tradizionale il nuovo album di Noel Gallagher’s High Flying Birds, Council Skies (Sour Mash) con undici brani di grande spessore compositivo, melodie beatlesiane, costanti folate psichedeliche, ballate intense e una serie di scintillanti brani pop beat. Other World (Beast Records) della Tex Perkins and the Fat Rubber Band è il grande ritorno dell’ex voce dei Beasts of Bourbon. Blues dolente, ballate intensissime, decadenti, crepuscolari, brani alla Stones, una voce cavernosa e piena di vita vissuta. Giorgio Canali & Rossofuoco in Pericolo giallo (La Tempesta) ci delizia con una serie di brani urticanti, cattivi, lucidi, intensamente politici. Poeta moderno che non ha paura a confrontarsi a chiare lettere con una realtà sempre più difficile e amara da vivere. I testi sono come sempre eccellenti, le canzoni crude e abrasive ma di una bellezza struggente. Disco italiano dell’anno.

GUIDO MARIANI
Musica d’autore coraggiosa. Jason Isbell, figlio di due adolescenti delle classi più umili dei bianchi dell’Alabama, canta la storia della sua famiglia, gonfia tanto di orgoglio quanto di oppiodi. «Erano solo ragazzi quando sono venuto al mondo ed ero ragazzo io quando morirono» ricorda l’ex membro dei Drive-by Truckers. Weathervanes (Thirty Tigers/Goodfellas) firmato con i 400 Unit è nel solco della miglior tradizione americana. Da Seattle, Noah Gundersen, deluso da una carriera che non è mai decollata, aveva deciso di ritirarsi dalle scene. È però tornato con If This Is the End (Soundly Music). E canta ogni canzone come se fosse l’ultima. Memorabile l’amore disperato di Haunted House: «Ti sei innamorata di una stella morente, un fegato malato e un cuore spezzato. Se riuscirai ad amarmi per tutto quello che non sono, ti darò tutto quello che mi rimane». Musica d’autore coraggiosa, ma Made in Italy. Emanuele Galoni non fa parte (grazie a dio) della scena indie. È un insegnante di lettere della provincia di Latina che sembra in missione per liberare la canzone italiana dal baratro della banalità. In Cronache di un tempo storto (Freecom Hub/Amor Fati) osserva, racconta l’era «storta» del Covid, si fa ispirare da La strada di McCarthy e dosa malinconia, melodia e ironia. Per finire due «armonie» sospese tra passato e futuro. I fratelli Brian e Michael D’Addario di Long Island, in arte The Lemon Twigs, non hanno neppure 25 anni ma sono oltraggiosamente rétro. Everything Harmony (Captured Tracks) sarebbe un disco sfacciatamente derivativo se non fosse una stupefacente prova di passione e talento. Steven Wilson con The Harmony Codex (Virgin) ci guida in un caleidoscopico labirinto musicale tra psichedelia, progressive, elettronica ed esperienza sonora immersiva frutto di tecnologie d’avanguardia.

LUCA GRICINELLA
Anche in questo 2023 Londra si è confermata capitale internazionale del jazz, come accaduto regolarmente dal 2016 in poi. Il collettivo London Brew, formato da dodici artisti tra cui figurano Nubya Garcia e Shabaka Hutchings, per il suo primo album, London Brew (Concord Jazz), si è ispirato a un capolavoro statunitense del 1970, Bitches Brew di Miles Davis, e ha registrato gli otto brani – per lo più frutto di improvvisazioni – in tre intense giornate di sessioni in studio. Un altro collettivo, questa volta americano, Irreversible Entanglements – animato dai versi di Moor Mother – si è connesso a sua volta con la storia alta del jazz registrando il suo quarto album, Protect Your Light, nei leggendari Rudy Van Gelder Studios, per una casa discografica illustre come Impulse!. Con queste premesse, si apprezza ancora di più come entrambi gli album sappiano essere contemporanei. Anche nelle produzioni musicali di Kenny Segal per il rap di Billy Woods ci sono varie tracce di jazz: i due con Maps (Backwoodz Studioz) si confermano tra i migliori rappresentanti dell’hip hop odierno, sempre attenti ai concetti di consapevolezza e conoscenza. Mentre sono davvero tante le influenze musicali del quinto album di Yves Tumor, Praise a Lord Who Chews but Which Does not Consume; (or Simply, Hot Between Worlds) (Warp/Self), che conviene limitarsi a includerlo nell’ampio contenitore del rock: basti dire che uno dei pezzi con maggiore potenziale pop ha una chitarra che passa dall’acustico a un’esplosione elettrica rievocando varie hit «indie» degli anni Novanta e si intitola Meteora Blues. Tutt’altra atmosfera rispetto a No Fixed Point in Space (Bella Union/Pias/Self) dei Modern Nature di Jack Cooper, un disco rock oltremodo intimo, tendente al minimalismo, senza «esplosioni».

VIOLA DE SOTO
Tempi duri questi. Il 2023 tra guerre, inflazione e chi più ne ha… Sicuramente non un bell’anno. Ne escono allora dischi incazzosi come quello di Battista. La fogna del comportamento (espressione coniata dall’etologo statunitense John Bumpass Calhoun, usata per denotare il collasso di una società) è un disco, che esce per Orangle, pieno di livore, che in termini musicali si traduce in un punk quasi hardcore e testi politicamente scorretti. Un bello schiaffo in faccia. Un colpo al cuore invece ce l’hanno dato i Fattore Rurale con il loro Raccolgo la notte (PA74 music). Disco scritto con il cuore, con testi profondi e soprattutto interpretati con pathos e grande sensibilità. Una voce che fa pensare a Tom Waits, supportata da un folk rock della bassa padana. Dark folk di grande impatto. Molto solare e spensierata invece l’operazione degli Arpioni, che hanno realizzato Jannacci secondo noi (rido e piango che non si sa mai) (Maite), disco che scandaglia sia tra i classici che tra brani poco conosciuti del mitico artista milanese con un approccio che non poteva essere altro che ska e reggae. Il risultato è divertente e Jannacci avrebbe apprezzato. Un mix riuscitissimo. Riuscitissimo e molto piacevole anche Epigram (Accannone Records) di Soundsick. Con il loro assalto frontale vero e proprio a suon di megawatt, riff assassini in bilico tra stoner e post grunge, dimostrano di essere una band monolitica, che suona e macina riff e passaggi meravigliosi tra il rock granitico ed eteree atmosfere psichedeliche. E con grande facilità si muove anche Arsen Palestini. Siamo in ambito hip hop. Ma in Social Nearness (Amusin’ Projects) ci sono tutte le altre subculture parallele tipo tastierine giocattolo memori di PacMan o simili. O divagazioni abstract che avrebbe potuto mettere in scena DJ Shadow. E non mancano, soprattutto nei pezzi in italiano, vere sberle in faccia, sia dal punto di vista dei testi che del groove (Ancora guerre su tutti).

FRANCO BERGOGLIO
Il compositore minimalista Steve Reich disse una volta che il brano Africa/Brass, «era essenzialmente una mezz’ora in mi». In John Coltrane with Eric Dolphy, Evenings at the Village Gate (Impulse!/Universal) possiamo ascoltarne l’unica versione dal vivo a oggi pubblicata, forse proprio quella sentita nel 1961 da Reich nel locale del Greenwich Village. Il quartetto di Coltrane si dilata a sestetto, con il batterista Elvin Jones un po’ avanti nella registrazione rispetto al pianoforte e ai due contrabbassi. Il disco è semplicemente l’ennesimo inedito di qualità del sassofonista più influente della seconda metà del Novecento. Con ampi riferimenti al lascito coltraniano (e ornettiano, ayleriano…) ci spostiamo nei territori dell’avanguardia norvegese della Gard Nilssen’s Supersonic Orchestra. Nilssen è batterista e il ritmo domina incontrastato in Family (We Jazz): avant-divertissement di qualità. Il sassofonista James Brandon Lewis, accompagnato dal Red Lily Quintet propone For Mahalia, with Love (TAO Forms). Un gruppo che annovera William Parker e Chad Taylor incontra una generazione più giovane. L’omaggio a Mahalia Jackson viene filtrato dal retaggio famigliare di Brandon Lewis e da una rilettura del gospel degna di un Albert Ayler contemporaneo. Si cambia atmosfera con il minimalismo jazz per pianoforte proposto da Alessandro Sgobbio. Il disco (Piano Music 2, Amp Music) si presenta apparentemente come un solo di pianoforte: in realtà un’elettronica tanto discreta quanto intelligente punteggia i brani modificandone gli esiti. I temi diventano moti dell’anima a «lento rilascio». Il lavoro di Patrizia Valduga & Daniele Di Bonaventura, Uno strato di buio e uno di luce (Gutenberg Music/Ird) è un concentrato al quadrato di poesia che emana ora dal bandoneon ora dalla voce recitante della poetessa. Parola e suono si intrecciano a livello altissimo, in un luogo dove l’arte volteggia senza rete.

MARCO RANALDI
Come chiusura e sintesi del 2023 il primo album che merita di essere ricordato è quello che il benemerito della cultura musicale Giuseppe Grazioli ha realizzato andando a recuperare una grande rarità, Cecilia di Licinio Refice (Dynamic/Ducale), che è uno di quei lavori di una Italia che sapeva scrivere musica ma che non fa glamour da prima della Scala. Grazioli ha realizzato la registrazione con il Teatro Lirico di Cagliari, luogo che rifugge il glamour meneghino. Ottimo cast. L’ormai ultra ottuagenario John Williams ci regala uno dei suoi ultimi lavori di grande bellezza, le musiche scritte per The Fabelmans (Sony Classical) di Spielberg. È uno score intenso, di grande profondità che contraddistingue Williams come uno degli autori più autorevoli della musica applicata. Come di memoria da riascoltare con elettronica applicata è il disco che Saverio Pepe ha realizzato Pepe canta Battiato (Onyx Jazz Club) . Con l’ottima ricerca sonora di Pierdomenico Niglio il disco è un vero tributo, non semplici cover. Da ascoltare proprio il 31 dicembre. Mentre il primo gennaio in attesa dell’oramai abituale New Year’s Concert segnaliamo quello del 2023 stupendamente diretto da Franz Welser-Most a capo dei Wiener (Sony Classical distr. Sony). Un vero tributo alla gioia con rarità degli Strauss e non solo. Infine è uscito postumo dopo la sua morte I Know This Much Is True (Autoprod.), il disco che contiene lo score che Harold Budd compose per la serie Nbo. È il testamento di un vero sperimentatore di mondi lontanissimi e che servirà come upgrade per il 2024 senza ricchi premi e berlusconiani cotillon ma con una certezza di bellezza sonora da ascoltare ancora e ancora. Con un ambient perfetto.

ROBERTO PECIOLA
Tanti, insomma, un discreto numero di buoni dischi ma scarsità di grandi album e praticamente assenza quasi totale di capolavori, con un’unica eccezione, forse, in questo anno musicale che ci sta abbandonando senza rimpianti. L’album che più si avvicina all’esser considerato un «capolavoro» è The Harmony Codex (Virgin) di Steven Wilson. Dopo il ritorno sulle scene con i Porcupine Tree Wilson è tornato in studio per confezionare questo bellissimo disco, di rara raffinatezza, a tutti i livelli: armonie, melodie, arrangiamenti e tecnica strumentale. Pop prog di livello assoluto. A proposito di pop e di melodie ineccepibili va ascoltato e riascoltato il nuovo del leader dei Supergrass Gaz Coombes, Turn the Car Around (Autopr.); una serie di brani più che validi e almeno tre eccellenze: Overnight Trains, Don’t Say It’s Over e Not the Only Things. Cambiamo registro e paese, trasferendoci in Australia, patria di alcune delle band più importanti della nuova scena psych, come Pond e Tame Impala. Tra i fondatori dei due gruppi c’è Jay Watson, il quale ha anche un suo progetto personale chiamato GUM e arrivato al sesto capitolo con Saturnia (Spinning Top/Goodfellas), in cui unisce psichedelia, pop e puntate r&b in maniera inappuntabile. Chiudiamo la nostra Top 5 con due album che si richiamano a quella prolifica scena che rivisita le sonorità punk e post punk degli anni Ottanta. Di lavori in tema ne sono usciti svariati, dagli Shame ai Murder Capital ai Protomartyr e via dicendo, ma i due che più ci hanno colpito sono O Monolith (Warp/Self), seconda prova per gli inglesi Squid, e l’iconoclastia e durezza quasi hardcore degli irlandesi Naked Lungs in Doomscroll (Autoprod.). Infine una menzione speciale per un brano, tra i migliori dell’anno, I Am the Seed, dal recentissimo Albion (Bella Union/ Pias/Self) di Harp, al secolo l’ex Midlake Tim Smith, cercatelo.

FRANCESCO ADINOLFI
Due anni lontano da tutto, passati a ricucire varie turbolenze esistenziali, e alla fine Adam Gibbons, inglese, polistrumentista, alias Lack of Afro è tornato con Square One (Bastion Music Group). È il suo ottavo album e quello che ti aspetti trovi: soul (soprattutto) e hip hop (poco) ancora più arrangiato e curato rispetto alle produzioni precedenti; brani come Loving Arms o All Night sono delizie soul irresistibili. Molto intenso e spirituale A Good Woman (Jalapeno Records) il nuovo album della cantante e pianista londinese Izo FitzRoy, con lei in copertina in abito lungo, bianco, tra le rocce. Soul, anche acustico, innervato da una voce gospel che vola altissima nei brani. Miglior nuova vocalist in Gran Bretagna. Per il Kevin Fingier Collective (di Buenos Aires, guidati da Fingier) gli anni Sessanta – analogici e imperfetti – sono il nuovo futuro; e questo è il succo dei tanti singoli fin qui pubblicati e di Not Strictly Soul (Acid Jazz), il primo album. Il titolo è ironico perché in realtà sempre al soul si torna. Sorprendente quel suono così rétro. Al contrario, Bunny (Yala! Records), nuovo album di Willie J Healey, artista indie guitar funk di Oxford, è un caleidoscopio solare funk pop anni Settanta che tiene dentro Outkast, George Harrison, Sly Stone o il Bowie di Young Americans. Ospite in un pezzo l’amico Jamie T. Intenso, politico, un po’ recitato, molto The Fall (menzionati già nel primo pezzo), Hands Across the Creek (The State 51 Conspiracy), il debutto degli inglesi è un cocktail di generi (post punk, indie folk, soul) rielaborati con una originalità illuminata.