FRANCESCO ADINOLFI
Un suono grezzo, granuloso, un cocktail di funk, rock, fiati e tastiere a pioggia. I danesi D/troit tornano con Heavy (Crunchy Frog), secondo album. Bastano Love Machine o Jealousy per fissare il tono: cori gospel, break di batteria, voce implacabile. Mancava all’appello da sei anni Jamie T, artista indie rock britannico, e poi il ritorno, quest’estate, con The Theory of Whatever (Polydor), album in cui torna a colpire con quel rock scarno, minimalissimo appeso a ritornelli e melodie che incantano; e poi la voce, cockney il giusto, che guida suoni a metà tra The Streets e Arctic Monkeys con i Clash eternamente nel cuore come in Between the Rocks e oltre. E all’improvviso ballate irresistibili come Old Republican. Ancora Londra: Sports Team, sestetto i cui componenenti si sono conosciuti all’università di Cambridge. Gulp! (Island), il secondo disco è indie rock sospinto da chitarre frenetiche e dalla voce di Alex Rice, con quella zeppolina così pronunciata. Brani perfettamente arrangiati e strutturati, piccole immersioni nella quotidianità britannica in cui spicca anche un senso d’ansia; rispetto al disco precedente, qui si cresce, intorno c’è molto grigio, e dopo il covid si spera di «Getting Better». Imperdibile la carica di The Drop. Terzo album per Shirley Davis & The Silverbacks, band spagnola che accompagna la cantante soul londinese. Keep on Keepin’ On (Lovemonk) celebra influenze vocali come Amy Winehouse o Sharon Jones. All’interno ballate soul blues intensissime come Love Insane e tante scorribande funk, tra cui It’s Alright o la travolgente Take Out the Trash. The Vintage Funk Vol. 1 (Upper Level), secondo album, del polistrumentista tedesco York è un viaggio al cuore di funk, soul e disco anni Settanta, tirando dentro da James Brown alle Sister Sledge a un groviglio di citazioni e atmosfere cinematiche. York è in giro da molto tempo e ha collaborato con tantissimi musicisti, Phil Collins, Randy Crawford, Quincy Jones, Ziggy Marley.

STEFANO CRIPPA
Guerre, devastazioni ambientali e sciagure varie: il 2022 ci lascia senza troppi rimpianti, ma almeno con una serie di dischi che fanno la differenza. E – elemento di non poco conto – risollevano l’anima… Come lo splendido quarto lavoro di Kae Tempest (passata durante l’estate al Torino Jazz Festival e a Roma più di recente). The Line Is a Curve (Fiction), concentrato elettronico prodotto dal suo storico collaboratore Dan Carey, parla di violenza, discriminazioni sessuali e non, disturbi e isolamento ma suona anche – di contrasto – come un inno alla vita. Collettivo londinese al quarto disco Electricity (Merge) gli Ibibio Sound Machine sanno come maneggiare con estro afro beat, disco e schegge di post punk. E farci divertire: un voto in più per la presenza della voce sontuosa della nigeriana Eno Williams. Come Lizzo, iperbolica superstar orgogliosamente «oversize» d’oltre oceano: con Special (Atlantic) sprizza gioia di vivere ma impone riflessioni (Everybody’s Gay), regalandoci alcune delle tracce che hanno segnato il dancefloor degli ultimi dieci mesi, come About Damn Time e To Be Loved, remixati a più non posso. Rimandi ai Settanta e ai Novanta compresi, ma sempre con gusto e carichi di inventiva. Non si era eclissato Stromae e il suo ritorno con Multitude (Moseart/Universal) ci ricompensa dai (troppi) anni di assenza. Gran disco, splendide melodie e arrangiamenti una spanna sopra la media per una voce che non si dimentica tanto facilmente. Album dell’anno? Nessun dubbio per l’eleganza non solo formale di Weyes Blood che con And in the Darkness Hearts Aglow (Sub Pop) indaga nelle pieghe dell’essere umano e sui disastri – ambientali e politici – determinati dai potenti del mondo, con uno stile che sa essere al contempo carezza e pugno.

GIANLUCA DIANA
Potrà essere un’epoca di difficoltà, foriera di bellezza, arte e capacità di creare empatia? Seguendo l’adagio che racconta di come i tempi della storia siano diversi da quelli degli esseri umani, attendiamo la fine di questa oscura transizione cronologica. Che pur se parzialmente, ha già storicizzato l’effetto sconvolgente della pandemia da Covid. Ne è prova la scena musicale mondiale tutta del 2022, in cui forse il punto di maggior rilievo è la creazione di produzioni discografiche sempre più mescolate con suoni altri. È una certezza in tal senso Fantastic Negrito, quanto talento quest’uomo, che ha lasciato tutti nuovamente basiti con White Jesus Black Problems (Storefront) dove ha connesso vicende personali a drammi artistici shakespeariani senza tralasciare l’attuale stagione di lotta afroamericana. Anche Kendrick Lamar si impone, di nuovo, per distacco: Mr. Morale & The Big Steppers (PGLang) è un lavoro di una maturità inimmaginabile che porta il mondo hip hop in una galassia sconosciuta, soppesando drammaturgia scritta e suonata con totale consapevolezza. Dalla medesima area di riferimento arriva anche Billy Woods, che nella New York in cui risiede, ha immaginato il progetto diventato Aethiopes (Backwoodz Studioz), una caleidoscopica miscela dove rintracciare electro e ritmi in levare su un telaio rap è consuetudine, generando equlibrio e qualità a iosa. Sempre dagli Stati Uniti arriva un’altra perla chiamata The Blues Don’t Lie (Rca) firmata Buddy Guy, dove il bluesman classe 1936 detta nuove direzioni sonore, imponendosi per distacco su colleghi di settore ben più giovani. Via Hakuna Kulala incontriamo The Afrorack, fulminante esordio omonimo per l’ugandese Afrorack, che scioglie le tradizioni poliritmiche della sua terra con frammenti techno e psichedelia modulare.

LUIGI ONORI
Cinque cd in The Emerald Duets (TUM Records) del trombettista-compositore afroamericano Wadada Leo Smith, 81 anni e un’inesauribile creatività e progettualità. Qui i duetti con i batteristi P. akLaff, A. Cyrille, H. Bennink e J. DeJohnette: musica di ampio respiro, di grande ispirazione socio-politico-sonora, dagli Uiguri in Cina al trombettista sudafricano M. Feza. Dalla Repubblica Sudafricana viene il pianista e compositore Nduduzo Makhathini, giunto al suo decimo album con In the Spirit of Ntu (Blue Note). «Questo disco è una profonda invocazione alla collettività», afferma il pianista che guida un ottetto orientato a una forte tensione riflessiva e al risveglio delle coscienze, nella miglior tradizione del jazz sudafricano (da A. Ibrahim ai Blue Notes). Di «radici poetiche», proiettate nel futuro, si occupa LeAutoRoiOgraphy (577 Records) degli americani Heroes Are Gang Leaders. È «un assemblaggio di poeti e musicisti», 12 artisti guidati dalla voce di Thomas Sayers Ellis e dal sax tenore di James Brandon Lewis, dal 2014 esploratori di interazioni jazz/spoken word. Travolgenti dal vivo, come l’omaggiato A. Baraka. Dal ricchissimo panorama italiano i Ghost Horse in Il bene comune (Hora Records) e il pianista Guido Coraddu con il suo Miele amaro (W Music). Il sestetto (con D. Kinzelman, J. Rehmer, S. Tamborrino) disegna scenari sonori lividi, cattura le angosce contemporanee venandole di squarci positivi. La dimensione è collettiva, sperimentale. Coraddu propone per piano solo «un’antologia di autori sardi di musica jazz», 40 anni e tre generazioni, da A. Salis a Z. Pia. Le straordinarie versioni pianistiche, i richiami a C. Nivola e a S. Cambosu illuminano il «ponte tra la cultura tradizionale e la contemporanietà» che ha reso internazionalmente «grandi» jazzisti e artisti sardi.

SIMONA FRASCA
Il Natale è anche occasione per riflettere sulla musica come dispositivo spirituale capace di scandagliare i recessi più intimi. Con Havasu (Big Scary Monsters) Pedro the Lion fa proprio questo cantillando il suo diario di vita, gli accordi dilatano lo spazio sonoro e il vuoto pulsante costituisce l’impalpabile impalcatura di racconti personali liberati dalla voce magnetica del one-man band David Bazan. Per noi Jack White resta uno baluardo del suono del XXI secolo, lui lo ha disegnato in un affresco variopinto suddiviso in due album che suonano come un unico, usciti a distanza di qualche mese. Sia nella veste slow-acustica (Entering Heaven Alive, Third Man Records) che in quella grezzo-dionisiaca più upbeat (Fear of the Dawn, Third Man Records) Jack resta il pioniere del nostro West sonoro. Con Lucifer on the Sofa (Matador/Self) gli Spoon scrivono un perfetto contrappunto emozional-strumentale in cui scorre il rock’n’roll del Mississippi e qualcosa di più graffiante che arriva a complicare il loro sound che resta ruvido e in perfetta sintonia con la voce sensuale di Britt Daniel. Uno sguardo all’Italia e al ciclico ritorno ai repertori tradizionali. Questa volta tocca al calabrese Toni Cutrone con il progetto Mai Mai Mai, Rimorso (Maple Death). Qui il simbolo ancestrale si unisce a suoni crossover gothic noise ed emerge un impasto etno-industrial-mediterraneo perturbante e catartico come un rito di possessione per procura. Al Sud continentale fa eco la Sardegna attraverso Paolo Angeli con Rade (ReR Megacorp/AnMa Productions). In esplicita idolatria (vicendevole) di Pat Metheny, con il suo strumento Frankestein chitarra-violoncello-batteria è il geniale esegeta di un modo assai peculiare di concepire la vita e la musica, eccezionale campo di incontro di infinite prospettive culturali.

VILMO MODONI
Nel 2022 è arrivato l’esordio solista di Paolo Milano, chitarrista torinese alla ribalta con For You (Self). L’artista piemontese si propone con una raccolta di ballad strumentali, meditazioni chitarristiche, momenti di grande pace e rilassatezza interiore che si dipanano tra influenze jazz e blues. Mentre ci culla con la sua limpida musicalità, Milano intreccia con maestria ritmo, melodia e armonia. Altra, recentissima, piacevole scoperta è il gruppo coreano Jambinai. Il postulato sul quale si fonda la musica del gruppo è semplice quanto impressionante: post rock, sovente virato metal, al cui impianto moderno vengono aggiunti i suoni atavici di strumenti tradizionali, in particolare l’haegeum (strumento a corde da suonare prevalentemente con un archetto). Anche nell’ep Apparition (Bella Union/Pias/Self) il risultato è strabiliante. Come strabiliante è Hellfire (Rough Trade) dei Black Midi. Per il gruppo londinese, che sta ridefinendo i canoni del prog, si tirano in ballo influenze di Zappa, King Crimson, Van der Graaf, Pere Ubu, Fall e altri. Ma nessuno suona come loro. Nessuno. Davvero entusiasmante, come è galvanizzante I’m not Sorry, I’m Just Being Me (City Slang) dei King Hannah. Il terreno battuto dal duo inglese è certamente quella sterminata terra di confine tra alternative rock e post punk, sulla cui spinta la cantante Hannah Merrick fa flottare una meravigliosa voce al crocevia tra PJ Harvey e Lana Del Rey. Se il futuro dei King Hannah è ancora tutto da scrivere, quello dei Kula Shaker sembrava già alle spalle. Al top di classifiche e critica nella seconda metà degli anni Novanta, la loro carriera pareva aver detto tutto. Senonché, quest’anno, con 1st Congregational Church of Eternal Love (Strange F.O.L.K) hanno pubblicato un gran bel disco. Il loro migliore.

FABIO FRANCIONE
Quanto scritto e messo a bilancio alla fine del 2021 può ancora valere per il 2022? Riteniamo proprio di sì all’ascolto delle nuove uscite. Infatti, molte produzioni sembrano ancora essersi giovate dei passati lockdown. Anche il miglior album del ’22, Oxymore. Hommage a Pierre Henry di Jean-Michel Jarre, è stato realizzato sulla scorta delle prove del concerto in streaming da una Notre Dame virtuale del capodanno scorso. Detto del Top Five 2022, si passa ad altri tre dischi che tentano di istradarsi verso una concezione della musica inedita, pur conservando la caratteristica consapevole di nicchia colta. I primi due sono dedicati alle «canzoni» di altrettanti protagonisti della cosiddetta «Generazione dell’Ottanta», la prima in Italia ad affrancarsi dal melodramma e a francobollare le novità musicali europee: Ottorino Respighi (Crepuscolo, interpreti il tenore Timothy Fallon e il pianista Ammiel Bushakevitz) e Gian Francesco Malipiero (Complete Songs for Soprano & Piano, esecutori il Vansisiem Lied Duo formato da Paola Camponovo e Alfredo Blessano). L’ultimo disco di questo ideale trittico, Italian Contemporary Music for Harpsichord (al clavicembalo Luca Quintavalle), sposta la bussola temporale in avanti di quasi 150 anni arrivando all’oggi e raccoglie una sorta di new wave all’italiana di compositori, nati tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso e messi in relazione con alcuni maestri della generazione a loro precedente. Si chiude con Eri con me, progetto musicale di Alice che sa molto di antico, visto che la cantante torna sul repertorio di Franco Battiato, cui ha dedicato alcuni dei suoi album migliori (su tutti Gioielli rubati). Oltre alla sensibilità di Alice e di Francesco Messina nella scelta delle canzoni, la novità qui è nel loro arco temporale che copre tutti i periodi del musicista e cantautore siciliano, dallo sperimentale fino alla testamentaria Torneremo ancora.

FRANCO BERGOGLIO
Le bibbie del jazz narrano che, all’inizio degli anni Settanta, non trovando lavoro nei club, Cecil Taylor dovette ripiegare sull’accademia. The Complete, Legendary, Live Return Concert (Oblivion Records) è la documentazione del comeback del 1973: una grandinata di note di oltre due ore rovesciata sulle teste dei newyorkesi, prodotta con il contributo di Jimmy Lyons al sax alto e Andrew Cyrille alla batteria. Andrew Cyrille, con William Parker al contrabbasso ed Enrico Rava alla tromba è co-protagonista di un omaggio a Taylor, 2 Blues for Cecil (TUM Records): frutto maturo dell’incontro di tre individualità del jazz contemporaneo che hanno collaborato con il pianista in periodi diversi. Il polistrumentista Charles Lloyd si è imposto con il suo jazz «flower power» negli anni Sessanta e dopo un lungo periodo di oscurità è tornato al ruolo di guru. Trio of Trios (Blue Note) è composto di tre dischi dedicati ciascuno a un diverso trio, al servizio di un lavoro spirituale e spoglio, dove il blues incontra Coltrane, l’India, l’America Latina… Gode di accompagnatori d’eccezione (Bill Frisell, Julian Lage, Zakir Hussain tra gli altri), ma è il flusso poetico complessivo a dominare. Al Foster, Reflections (Smoke Sessions Records). Qui brilla la grazia di uno dei maestri della percussione, capace di impreziosire con accenti fantasiosi temi usurati dallo sfruttamento intensivo; in repertorio abbiamo Rollins e Monk, il funk e la ballad. Dalla tradizione della batteria passiamo al suo esponente oggi più celebrato: Makaya McCraven, In These Times (International Anthem). I confini di genere sono privi di senso, a emergere è una black music pan-pop-etnica, dalla Motown al minimalismo. I brani sono intricati bozzetti ritmici abbinati a melodie che sembrano evaporare rapide, come la nostra società.

MARCO DE VIDI
Fingiamo che tutto sia tornato alla normalità, ma le nostre battaglie sono più urgenti di prima, da affrontare con radicalità, creatività, senza mai dimenticarci di giocare. Moor Mother, Jazz Codes (Anti-/Self). Come Moor Mother oggi non c’è nessuno: ascoltando la sciamana di Filadelfia, sentiamo l’universo espandersi, siamo risucchiati in un flusso magico in cui free jazz, hip hop, poesie afrofuturiste ed elettronica ci travolgono, in cui dialogano il passato e il futuro della comunità afrodiscendente e dove la redenzione è possibile grazie a una musica che non ha limiti. Soul Glo, Diaspora Problems (Epitaph/Self). Le gravi accuse verso un componente hanno messo in crisi la tenuta della band, ma la forza di questo disco che mette insieme punk hardcore e hip hop incazzato è irresistibile, una denuncia implacabile verso il razzismo, la violenza di stato, le politiche sulla salute mentale, la gentrification e la vita sotto il capitalismo. Urias, Furia (Mataderos). «Voglio tutto e lo voglio adesso»: nel Brasile liberato dal bolsonarismo, l’energia rabbiosa dell’artista transessuale Urias, che mette insieme rap, hip hop, electroclash, in una formula tamarra al punto giusto. Siksa, Szmery w Sercu (Antena Krzyku). La più bella scoperta dell’anno: il cantato nonsense in polacco della frontwoman Alex sul basso metal di Buri, un approccio delirante e divertentissimo che mette in ridicolo un governo misogino e iper conservatore. Rival Consoles, Now Is (Erased Tapes/Audioglobe). Elettronica per levitare, per sorvolare il nostro mondo in dissoluzione, osservando le rovine, ma esplorando connessioni e legami, provando un’empatia primigenia indotta da sintetizzatori umanissimi. A ricordarci che la bellezza può ancora salvarci.

MARIO GAMBA
Sospettato di simpatie comuniste, il compositore Isang Yun venne rapito a Berlino nel 1967 da agenti segreti sudcoreani. Imprigionato, torturato, rilasciato poi grazie a una campagna mondiale degli ambienti culturali. Un grandissimo. Sosteneva che i suoni viaggiano nel cosmo e che ai compositori spetta solo il compito di tradurli in musica. Sosteneva anche che c’era differenza tra la musica d’Occidente e quella d’Oriente: la prima era fatta di linee e la seconda di curve, di sinuosità. Nell’album Music for Cello and Piano (Kairos) si ascoltano meraviglie di Yun come l’angosciato, luminoso, appuntito, fluido Concerto per violoncello e orchestra (1976). Come i vagamente «viennesi» 5 Pezzi per pianoforte (1958), piacevoli, liberi, inventivi. Come il canto straziato e dolce di Note per violoncello e piano (1964). Come Interludium A per piano (1982), un gioco misterioso e decorativo intorno all’unico suono. Come Espace I (1992) per cello e piano, quasi cantabile, sereno. Sidera Saxophone Quartet fa onore al suo nome sia nel senso di attingere a regioni stellari sia nel senso dell’eccellenza veramente superiore. In Koinè (Ema Vinci) interpreta musiche di Ceccarelli, Antonioni, Doati, Solbiati, Bussotti, Scodanibbio. I brani di Luigi Ceccarelli (Neuromante x 4, impetuoso, meditativo, free, di un’originalità indescrivibile) e di Francesco Antonioni (Organum III, un pensare lirico magistrale) spiccano tra tutti. Come definire la pianista (con tastiere preparate al quarto di tono) Kaja Draksler? Postmoderna? Hum, no, troppo semplice. Nel suo In Otherness Oneself (Unsounds) evoca Webern, le ballad e le sospensioni del respiro. Anch’essa «fuori scuola», la collega di strumento Katharina Weber è più in sintonia con la «classica» del Novecento nel cd In Márta’s Garden (Intakt), dove omaggia la moglie di Kurtág. Un collega celebre e divo come Keith Jarrett dà il meglio di sé nel commovente Bordeaux Concert (Ecm).

ANTONIO BACCIOCCHI
Il 2022 non ha regalato capolavori assoluti ma album di grande interesse tra nomi consolidati e nuove realtà. A partire dalla conferma del valore di Fantastic Negrito che in White Jesus Black Problems (Storefront) scrive un concept autobiografico sulla storia degli afroamericani, con il consueto supporto di un travolgente mix di blues, soul, rock, funk trattati con piglio punk. Gl inglesi Ezra Collective con Where I’m Meant to Be (Partisan/Self) rappresentano al meglio il sound della scena nu jazz e della sua passione per le contaminazioni, celebrazione del ritmo e dell’ibridazione sonora: jazz, funk, hip hop, salsa, afrobeat, grime, elettronica, rap. I giovanissimi australiani Lazy Eyes incidono un album di altri tempi, Songbook (Lazy Eyes Records), a base di nuova psichedelia che guarda spesso ai connazionali King Gizzard e Tame Impala ma anche a kraut rock e tanti altri gusti in arrivo dagli anni Sessanta. Deliziosi. Al terzo appuntamento gli svedesi Viagra Boys fanno centro con Cave World (Year 0001) mischiando il post punk con mille altre influenze, portando con sé James Williamson degli Sleaford Mods, andando di elettronica, chitarre devastanti, Prodigy e Nick Cave in un solo abbraccio, aggiungendo perfino Suicide, Devo e i PiL. Buone nuove dalla penisola, soprattutto grazie ai Sacromud (album omonimo per Labilia Records), dodici brani di fangoso blues che attinge dalle atmosfere minacciose dei peggiori luoghi di New Orleans ma anche dal cuore profondo dell’America in cui si fondono soul, funk, gospel, r’n’b. In perfetto equilibrio tra Jack White e Fantastic Negrito con Dr. John a benedire.

MARCO RANALDI
Botti di capodanno a parte, il sentire di quest’anno che finisce ha avuto delle punte di assoluta bellezza. Partendo proprio da quello che è oltre a un lavoro di divulgazione anche di piacere: Giuseppe Grazioli ha registrato un cd dedicato a Fiorenzo Carpi, Pinocchio & More (Warner). È un disco ricco di pagine del geniale compositore milanese nel quale troviamo non solo una suite da Le avventure di Pinocchio, ma materiale dal teatro, un Concerto per violino e pianoforte, e una splendida Goldoni Suite. Per non dimenticare un altro grande genio della musica, Iskra Menarini ha ben pensato di dedicare un omaggio a Lucio Dalla: Lucio dove vai? Io sono qui (Azzura Music). Menarini è stata per anni una delle voci di Dalla e il suo omaggio è davvero commovente. Un compositore che sa muovere le corde dell’anima è Rossano Pinelli, bresciano che da anni cerca un nuovo linguaggio di comunicazione musicale. Ha creato una specie di extra tonale ed è possibile ascoltare alcune sue opere per pianoforte nel cd Notre-Dame de la Babenzele (Stradivarius/Milano Dischi). Interpreti Giovanni Mancuso e Andrea Rebaudengo. Ancora musica d’autore con un tributo di Alessio Lega a Ivan Della Mea in Canzoniere della rivolta (Ma.So.). Anche in questo caso il ricordo di Della Mea è essenziale, fatto con grande cuore e maestria. Infine un intero cd dedicato a Richard Addinsel, compositore sofisticato di musica per film. Kenneth Alwin dirige la BBC Concert Orchestra (Naxos/Ducale).

GUIDO MICHELONE
Nel jazz, spesso scendono in campo differenti generazioni a confronto come la jam session di Live at the Detrot Jazz Festival (Candid) a nome dei quattro celebri protagonisti, Wayne Shorter, Terri Lyne Carrington, Leo Genovese, Esperanza Spalding; e del saxman 89enne vengono condivisi ben 3 brani su 5, con una versatilità di situazioni che, indirettamente, rendono omaggio alla capacità del jazz medesimo di autorigenerarsi. E pure rigenerativi sono altri due dischi che citano, a modo proprio, la fusion: per il George Grydkovets di Rise (Shiftying Paradigm) si tratta della conferma della scuola chitarristica ucraina, in esilio già molto prima della guerra: in quartetto con 12 original parla la lingua del virtuosismo sia acustico sia elettrico, cambiando spesso atmosfere musicali. Il tastierista francese Cédric Hanriot in Time Is Color (Morphosis), dopo il rodaggio di ben cinque anni con il proprio trio, mette a frutto l’esperienza, mostrando estrema versatilità nel passare dal jazz rock all’hip hop su 13 propri brani (più un tributo a Nirvana e Massive Attack) facendo intervenire con parsimonia qualche ospite. Per Transneptunian Planets (RareNoise) di J. Peter Schwalm & Stephan Thelen si parla di concept album – tributo sui generis ai Pianeti del sinfonista Gustav Holst – di noise jazz, giacché la ricerca del duo tedesco-svizzero è condotta verso una sintesi elettroacustica, con influenze ambient e post rock. Infine il contributo italiano di Francesco Caligiuri e Nicola Pisani in Monastére enchanté -L’enseble créatif (Dodicilune) si impegna tra arcano e moderno a «raccontare» il monastero di San Francesco da Paola a Spezzano della Sila, attraverso l’incontro tra un ensemble boppistico e uno classico, arricchiti da noti solisti per mostrare come le polifonie rinascimentali possano incontrare l’improvvisazione.

VIOLA DE SOTO
Sempre pensato che lo zeitgeist del 2022, dopo i lockdown, il Covid, la guerra in Ucraina e l’emergenza energetica potesse essere molto più «rumoroso», incazzoso. La Methamorfosi, con il loro In dolore (autoproduzione), sono stati i primi ascoltati quest’anno con una buona dose di rabbia latente, espressa poderosamente con uno stile stoner, doom notevole soprattutto per i suoi riff devastanti. Sulla stessa onda Abissi, con il loro Oltre (autoproduzione). Matrice anche qui stoner, con una tendenza alla psichedelia che fa quasi da punto di partenza verso un atteggiamento di escapismo. Avremmo potuto aspettarci un disco molto incazzoso anche da Lacero. Mollato però l’armamentario rock, in versione unplugged, con C’era solo da aspettare (Orangle) si ripiega su se stesso e mette in scena un universo intimo che vaga tra malinconia e rassegnazione, che suona comunque interessante. Cantautorato dell’anima. Chi invece ci dà dentro e urla ai quattro venti la rabbia e la frustrazione provata nel biennio da dimenticare (2020/2021) sono sicuramente SantøSpirito. Nel loro disco d’esordio (Allucinante, Dischi rurali), con un approccio decisamente rock/stoner, ma con capacità di scrivere canzoni con ritornelli da urlo. Su tutte Giovani di adesso, vero e proprio anthem generazionale che i network provincialissimi della «nostra» Italia si guarderanno bene dal trasmettere. «Una canzone per i giovani di adesso, se l’ascoltate lei sarà un buon esempio. Non vi drogate non bevete non fate sesso, due dita in gola andiamo a vomitare al cesso». Recita così il brano in questione. Forse un pezzo che potrebbe scuotere, come cantano ancora nello stesso brano «una schiera di zombie, costretta in schiavitù». Speriamo.

LUCA GRICINELLA
Finalmente in questo 2022 sono usciti due album che hanno fatto rialzare la testa con decisione al rap underground statunitense: le atmosfere fumose e oscure e i flow mutevoli e originali presenti in Deathfame (Mello Music Group) di Quelle Chris e in The Elephant Man’s Bones (ALC) di Roc Marciano & The Alchemist dicono che c’è ancora spazio per le rime a tempo meno allineate nell’epoca del loro flirt istituzionalizzato con il pop e dell’esposizione continua delle superstar «urban». Non c’è più quel conflitto «barricadero» tra due mondi agli antipodi che si guardano male come accadeva fino agli anni Dieci: si tratta di semplici proposte di qualità alternative all’estetica mainstream. In Jazz Codes (Anti-/Self) di Moor Mother, invece, il rap, insieme al neo-soul, diventa una «spezia» che dà sapore ai due ingredienti principali, jazz e poesia: qui le atmosfere si fanno, per lo più, notturne e incantate e l’artista di Aberdeen formatasi a Filadelfia ribadisce il suo approccio colto – soprattutto alla parola – con cui si era già fatta notare da molti cultori musicali, specialmente grazie al precedente Black Encylcopedia of the Air (2021). A proposito di jazz ben contaminato da ritmi contemporanei, gli inglesi Binker Golding (sax) e Moses Boyd (batteria), ossia Binker & Moses, coadiuvati dalle «macchine» dirette da Max Luthert, con Feeding the Machine (Gearbox) hanno realizzato un album con una tensione intima in cui l’improvvisazione ha un ruolo centrale. Il jazz di The 7th Hand (Blue Note) firmato dal sassofonista classe 1998 di Filadelfia Immanuel Wilkins insieme al suo quartetto è più spirituale e, nello stesso tempo, a tratti più impetuoso ma anche in questo caso l’improvvisazione è ben presente, soprattutto grazie ai 26 minuti del brano di chiusura, Lift. Insomma, è stata una buona annata per rap e jazz.

GUIDO FESTINESE
La Joni Mitchell di oggi, intendendo col nome della gloriosa songwriter canadese chi in questi giorni sia in grado di starle alla pari nel costruire canzoni armonicamente complesse, immediate nella riconoscibilità, belle sia nei testi sia nei profili meldoici mai banali si chiama Natalie Laura Mering, in arte Weyes Blood. And in the Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop) mantiene quanto promette il titolo: nelle tenebre contemporanee, qualche cuore riesce ancora a scintillare. Hanno scintillato così per cinquant’anni i cuori e le teste degli Om, leggendaria formazione avantjazz con tre svizzeri e un inglese. 50 (Intakt) rimarrà come ultima testimonianza per il giocoso e funambolico batterista Fredy Studer, motore dinamico di un gruppo che ha sempre messo in conto creatività, ironia, ricerca, consistentissima leggerezza. E poi lavoro sui timbri, presenza ritmica, costruzione all’impronta di inauditi paesaggi sonori. Si è affacciato invece sulle scene quest’anno The Smile, il gruppo che Thom Yorke ha costruito con le energie amiche di Jonny Greenwood, chitarrista nei suoi Radiohead e Tom Skinner, batterista attivo sulla scena etno e avantjazz londinese, a partire dai Sons of Kemet. A Light for Attracting Attention (XL/Self) in tredici brani ben ideati e suonati meglio mostra che in casa Radiohead ci sono ancora parecchie riserve di ispirazione e nuovo nerbo ritmico: bisognava cambiare nome, per dimostrarlo. Un esordio folgorante, ma da gente che aveva già le mani parecchio in pasta, con l’indie rock meglio costruito e più trascinante? Quello luminoso e dolente assieme degli Aeon Station di Observatory (Sub Pop). Un disco intenso di jazz italiano che abbia memoria della raffinatezza art rock d’antan? Fantásia di Jacopo Ferrazza (Teal Dreamers Factory)

CAMILLO VEGEZZI
Nell’era dello streaming, ascoltare un album per intero può sembrare un’azione anacronistica e fuori moda. Eppure, i «best» di questo 2022 dimostrano che è ancora il modo migliore per riflettere sulla musica e sulle sue continue evoluzioni. Con In These Times (International Anthem/Self), il batterista e producer di Chicago Makaya McCraven si è confermato come uno degli artisti più importanti del jazz contemporaneo. Un lavoro maturo e multiforme, in cui una sapiente fusione di generi regala un’esperienza d’ascolto soave ed esaltante al tempo stesso. Midnight Rocker (On-U Sound) segna il ritorno in grande stile di Horace Andy: un disco che colpisce per la qualità della produzione, curata dal dub-master Adrian Sherwood. L’iconica voce della leggenda reggae guida splendidi arrangiamenti dominati dai fiati e da incursioni di violoncello. La cover di Safe from Harm – omaggio al sodalizio coi Massive Attack in Blue Lines – è tra le migliori canzoni dell’anno. ¡Ay! (RVNG Intl.), dell’artista colombiana Lucrecia Dalt, e Reset (Domino/Self), di Sonic Boom & Panda Bear, sono album diversi tra loro, ma che similmente usano sonorità del passato per parlare di attualità e futuro. Il primo è un viaggio nel tempo e nella musica latinoamericana, in cui ritmi indigeni e tropicali si mescolano a pattern elettronici e a una vocalità ipnotica e straniante. Il secondo è un collage sonoro in cui sample di pezzi r’n’r e country degli anni Cinquanta si trasformano in tracce oniriche e psichedeliche, i cui testi compongono un mosaico della nuova normalità iperconnessa e post-pandemica. In Italia l’uscita più interessante è Scenario (Intersuoni), terzo album del misterioso collettivo C’mon Tigre: tra afrobeat, electro jazz e trip hop, dodici tracce travolgenti e imperdibili.

ANDREA LANZA
Anno movimentato questo, di grandi uscite e promesse, anche italiane, che aspettiamo al varco con album completi, come il caso della grintosa Beatrice Quinta e della sua Se$$o, o de Le bambole di pezza con l’incattivita Favole (mi hai rotto il caxxo). Specchio (Universal) è invece la sorpresa dell’anno, il primo album in studio di Ariete, un lavoro indie pop che fa scomodare, nell’intensità, classici come Come Away with Me di Norah Jones o Tidal di Fiona Apple. Canzoni da intorto (Universal) è invece la sorpresa del cuore, un nuovo album di Francesco Guccini. Il suo album fureggia grazie al ritmo incalzante, all’uso anarchico della fisarmonica e delle percussioni. Passiamo all’estero con le britanniche Wet Leg, duo di amiche incazzatissime che si approcciano al pop rock con il loro omonimo album (Domino/Self). La formula è presto servita: ironia, testi arrabbiati, tanta chitarra, ma soprattutto un inedito approccio alla scena musicale con la spensieratezza che manca a tante altre band più blasonate. Potente anche Hold the Girl (Dirty Hit) di Rina Sawayama, cantautrice e modella giapponese. Il suo pop elettronico ricorda Lady Gaga, ma i temi sono più vicini all’intimismo indie. L’infanzia lacerata per colpa di un divorzio e la propria sfera sessuale d’appartenza (LGBTQ+) sono l’occasione per una intensa riflessione su cosa sia davvero l’amore. Torniamo all’Italia poi per chiudere questa top five con l’intensa Ginevra Nervi, cantante genovese, con il suo The Disorder of the Appearances (La Tempesta International). Anche qui siamo davanti a un grandissimo album in cui distorsioni vocali e manipolazioni uditive aprono un universo unico nel panorama musicale.

FLAVIO MASSARUTTO
Nell’anno del centenario mingusiano la prima segnalazione va a Charlie’s Blue Skylight (Dodicilune) del sopranista Roberto Ottaviano e del pianista Alexander Hawkins. Un tributo antiretorico e lirico fino alla commozione per celebrare il Santo Nero di Nogales restituendone l’attualità musicale e politica. Altra collaborazione italo-inglese per Three tsuru origami (We Insist!) dove la tromba di Gabriele Mitelli (anche al soprano, voce ed elettronica) incrocia il contrabbasso di John Edwards e la batteria di Mark Sanders. Spontaneità e rigore, controllo e abbandono per una performance che ha tutta la freschezza di un concerto. Tra memorie del free jazz storico e nuovi approdi per un trio che è appena nato e sembra suonare insieme da sempre. Guarda invece all’Africa il quartetto Fawda, formato da Reda Zine (voce, guimbri), Fabrizio Puglisi (tastiere), Danilo Mineo (percussioni ed elettronica) e Brothermartino (fiati ed elettronica), con il loro secondo disco Abou Maye (Brutture Moderne). Affascinante viaggio tra la trance della musica gnawa marocchina, l’african piano di Dollar Brand, suggestioni etiopi in una miscela di suoni acustici ed elettronici travolgente. Protagonista assoluta del 2022 è la statunitense Mary Halvorson con l’uscita di due dischi gemelli capolavoro dei quali scegliamo Belladonna (Nonesuch) dove la chitarrista riesce nell’impresa di scrivere una musica nuova e convincente per un quartetto d’archi in chiave jazz. Finiamo dove abbiamo cominciato con il triplo The Lost Album from Ronnie Scott’s (Resonance) di Charles Mingus, registrato nell’agosto del 1972 dal vivo nel club londinese e poi accantonato dalla Columbia. Dal passato una performance che riluce della potenza creativa ed emotiva di uno dei giganti del Novecento.

GUIDO MARIANI
Ci sono album che andrebbero ascoltati ignorando il passato. I ritorni di The Afghan Whigs con How Do You Burn? (Royal Cream-Bmg) e dei Built to Spill con When the Wind Forgets Your Name (Sub Pop) dovrebbero essere accolti senza considerare che suonano come due formidabili frammenti di una delle stagioni più irripetibili del rock. In realtà le due band, ormai emanazioni dei loro leader Greg Dulli e Doug Martsch, suonano più fresche, solide e necessarie che mai. Sfidiamo chiunque a trovare un titolo più poetico di «Quando il vento dimentica il tuo nome». Vi ricordate Jean-Michel Jarre? Sì, quel megalomane che due decenni fa usava le piramidi di Giza come palcoscenico. Dire qualcosa di nuovo nella musica elettronica oggi è un’impresa. Con i suoni avvolgenti, materici e tridimensionali di Oxymore (Sony/Columbia), l’artista francese dimostra che si può sperimentare e innovare anche quando si superano i 70 anni. Le canzoni di Florence Welch, alias Florence + The Machine, hanno qualcosa di sciamanico ma, contemporaneamente, intimo e personale. Un rito pagano associato a una confessione cattolica. Dance Fever (Polydor), disco in parte ispirato alla pandemia, è l’ennesima prova della sua autenticità e levatura artistica. I texani Polyphia fanno invece parte di una nuova generazione di musicisti che fa di tutto per non guardarsi indietro. Remember that You Will Die (Rise/Bmg) è un trionfo di virtuosismo chitarristico (i due guitar heroes della band sono Tim Henson e Scott LePage) e rappresenta allo stesso tempo un tentativo di far confluire i groove di oggi nella trama di una nuova concezione di progressive rock.

ROBERTO PECIOLA
Sarà stata la (supposta) fine della pandemia, fatto sta che in questo 2022 che sta per concludersi, di dischi ne sono usciti in gran numero. E, come normale che sia per chi fa il nostro mestiere, ne abbiamo ascoltati moltissimi, forse troppi. Stringi stringi, la selezione ci ha portati a una decina di titoli meritevoli di menzione, ma le regole sono regole e vanno rispettate, ergo ecco la nostra personale «cinquina d’oro», in ordine sparso. Partendo dal più recente, un ep: Apparition (Bella Union/Pias/Self) dei sudcoreani Jambinai. Folk tradizionale unito a sonorità occidentali che vanno dal post al prog rock, semplicemente strepitoso. A seguire l’attesissimo esordio del nuovo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead con il grande Tom Skinner alle pelli. La band si chiama The Smile e il disco A Light for Attracting Attention (XL/Self), un album che riprende solo parzialmente le sonorità della band originaria, sperimentale e intenso. Altro lavoro che gli appassionati aspettavano da tempo, il nuovo dei Mars Volta, riunitisi quasi, ma non troppo, a sorpresa. L’album, omonimo (Cloud Hill), spiazza i fan e spazza via il passato, addio al post hardcore e alle elucubrazioni prog jazz e spazio a un pop sofisticato e fuori dagli schemi. Bellissimo. Frank Zappa che incontra i Genesis, gli Henri Cow a braccetto con Frank Sinatra, il post punk Eighties che flirta con il krautrock? Questo e molto altro nel terzo disco degli inglesissimi Black Midi, Hellfire (Rough Trade). Last but not least, un capolavoro: Skinty Fia (Partisan/Self). Gli irlandesi Fontaines D.C. arrivano al terzo lavoro con una maturità fuori dal comune grazie a un suono ormai personalissimo. La consacrazione di una delle band migliori in circolazione!