Una delle pagine più dolorose della storia italiana, le stragi firmate da Cosa Nostra a Palermo con l’eccidio dei due magistrati più attivi nella lotta alla mafia, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, si consuma trent’anni fa a Palermo. Il 23 maggio 1992 la strage di Capaci con l’assassinio di Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Cinquantasette giorno dopo – il 19 luglio – in via D’Amelio perde la vita Borsellino con gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Tony Gentile (Palermo 1964, vive e lavora a Roma), allora giovane fotoreporter che collabora con il Giornale di Sicilia e da freelance con l’agenzia Sintesi, è sul posto per raccontare ciò che non si può dimenticare. È sua anche l’iconica foto di Falcone e Borsellino sorridenti, colti in un momento di spontaneità, mentre partecipano ad un convegno il 27 marzo di quello stesso anno. Un’immagine che è stata «adottata» dalla collettività, riprodotta e riproposta nelle diverse varianti. «Per lo più è stata interpretata in maniera pop, ma è interessante anche la sua popolarità in forma di tatuaggio. Normalmente ci si fa il tatuaggio con Che Guevara o Maradona, perché scegliere Falcone e Borsellino? È evidente come la foto sia diventata un pensiero, un’ideologia. È entrata nella vita della gente» – afferma il fotografo mettendo da parte la vicenda della Rai sui diritti d’immagine – «Una volta l’ho vista sulla parete, nella bottega di un vecchio ciabattino di Ragusa Ibla, tra le foto dei suoi parenti morti con il lumino. Ma c’è anche un aspetto brutto: per i mafiosi questa foto può essere considerata un trofeo di caccia, oppure usata come paravento di una finta antimafia.» Dopo La guerra, una storia siciliana (Postcart, 2015) è in corso di pubblicazione con Silvana Editoriale un nuovo volume che raccoglie le fotografie di Tony Gentile.

Quando, a partire dal 1989, giovane fotoreporter con la tua Vespa celeste correvi da una parte all’altra di Palermo per documentare la cronaca, c’era la consapevolezza che stavi cogliendo l’attimo di una storia particolarmente difficile?
Da giovane una delle motivazioni che mi aveva spinto a fare foto era stata la possibilità di sensibilizzare le coscienze. Avevo ricevuto quest’esempio da Letizia Battaglia e Franco Zecchin. Attraverso il lavoro di questi due fotografi avevo deciso da che parte stare, se dalla parte della mafia o da quella della legalità. Sono cresciuto in un contesto in cui la mafia ce l’avevo accanto alla porta di casa. Frequentavo un liceo, a Brancaccio, a 150 metri da dove è stato ucciso Padre Puglisi e decine e decine di altri morti ammazzati. Muovendomi in questa direzione sapevo che dietro ogni omicidio che andavo a fotografare, così come ogni manifestazione, c’era un messaggio che potevo dare e che sarebbe servito a qualcun altro per farsi un’idea e capire, proprio com’era stato per me, da che parte stare.

Scattavi poche immagini, allora c’era la pellicola, il fotogiornalismo è cambiato molto?
Assolutamente sì. Senza nostalgia è semplicemente un’altra realtà. Eravamo abituati alla sintesi, a raccontare le storie con 3 foto. Si scattavano poche foto non solo perché i rullini costavano, anche per la capacità di scegliere velocemente. Se faccio dieci rulli poi devo scegliere tra 360 foto, invece se ne faccio uno devo scegliere solo tra 36 foto!

Prima ancora che con lo scatto, la velocità ha a che fare con lo sguardo…
La velocità dell’intuizione.

Ne è un esempio l’immagine iconica di Falcone e Borsellino…
Esatto. Quella sera avevo intuito un gesto, un qualcosa che stava per succedere. Se non fosse stato il frutto di un’intuizione, non avrei quella foto. L’avrei vista, come l’hanno vista tutti quelli che erano presenti, seduti in platea in prima o seconda fila, ma non sarei stato pronto a scattarla.

Cosa ti aveva portato, il 27 marzo 1992, al convegno nella sala conferenze dell’allora albergo Trinacria?
Molto banalmente mi aveva mandato il Giornale di Sicilia per seguire la tavola rotonda in cui Falcone e Borsellino, prestandosi a sostenere la campagna elettorale di Giuseppe Ayala, parlavano della relazione tra mafia e politica. Due settimane prima era stato ucciso Salvo Lima, quindi l’interesse mediatico nei confronti di quelle due persone, che potevano veramente spiegare cosa sta per succedere, era altissimo. Tra l’altro vedere insieme i due magistrati non era facile, considerando che Falcone lavorava a Roma. All’epoca facevo il freelance e, collaborando con l’agenzia Sintesi, pubblicavo le mie foto su diverse testate tra cui L’Espresso e Panorama. Sapevo che erano temi che si vendevano bene, più producevi e più avevi la possibilità di vendere ai giornali. Era un’occasione ghiottissima. Ad un tratto, mentre la discussione era in corso, vidi che stava succedendo qualcosa. L’uno si stava avvicinando all’altro. Ho cercato di cogliere un momento vero, spontaneo, cosa che nei convegni è una rarità. L’ho intuito anticipandolo, spostandomi. Dalla sequenza delle foto – quattro in tutto – si capisce il mio movimento, perché si vede la prospettiva diversa del tavolo. Con la quarta foto avevo finito. Avevo capito di avere la «foto buona».

Dal punto di vista emotivo come ti ponevi quando dovevi fotografare i morti ammazzati?
È il primo morto quello che non dimentichi mai. Non sai quale potrà essere la tua reazione davanti a una morte violenta, pensi che forse ti sentirai male, vomiterai. Però sai che dopo aver visto le foto potenti e di denuncia che hanno fatto altri, lo vuoi fare anche tu.
La mia prova del fuoco fu nel 1989, quando vidi un funzionario della regione Sicilia che non era stato disponibile a qualche tentativo di corruzione per cui era stato ucciso. Sempre con la Vespa celeste e con le due macchine fotografiche, una con il colore e l’altra con il bianco e nero, arrivai in centro a Palermo, vicinissimo a dove sarebbe stato ucciso Libero Grassi, tra via Sperlinga e via della Libertà. Per fortuna non mi impressionò e non entrai nel panico.

Non ti è mai capitato di non riuscire a fotografare una scena troppo cruda?
No, non ricordo che sia mai successo. Quando è stato necessario che raccontassi la violenza, l’ho fatto. Certo, la violenza di Capaci e via D’Amelio ti lascia dei segni profondi ma tu la devi raccontare. Solo con il tempo ti accorgi delle ferite che ti ha lasciato.
A Capaci quella violenza l’abbiamo visto un po’ a distanza. Non c’erano cadaveri visibili, sembrava una scena lunare. Non capivamo dove ci trovavamo, l’autostrada non c’era più. Arrivammo sul posto in maniera rocambolesca, si vedeva l’asfalto sventrato a centinaia di metri dal cratere, sulle case, dappertutto. Ricordo la sensazione d’incredulità. Ma non c’era tempo per fermarsi a pensare. Dovevi fotografare e correre per tornare subito al giornale perché era tardi. Entrai in un loop di adrenalina che mi fece incamerare tutto ciò. A via D’Amelio, invece, c’erano i cadaveri o meglio i resti dei cadaveri… le dita, le mani… con le lenzuola erano riusciti a coprire solo le parti più grandi. C’erano chiazze di sangue, resti finiti su un balcone. Ricordo l’odore di carne bruciata che si mischiava a quello dei copertoni bruciati e il suono ininterrotto delle sirene delle automobili e degli appartamenti. Dovevo fotografare ma non posso dimenticare quello che ho vissuto.

L’imprevisto che ruolo ha nella tua fotografia?
Bisogna sperare che l’imprevisto non ci sia… (sorride) e quando c’è lo devi risolvere. Ma può anche essere bello, come mi è capitato nei tanti anni in cui ho lavorato per la Reuters – dal 2003 al 2019 – magari per realizzare una storia mai fatta prima. Studi, vedi, cerchi di capire qual è l’attrezzatura migliore, guardi anche le foto che hanno fatto altri prima di te e poi impari a buttare le tue foto e selezionare solo quelle buone, a costruire la tua visione, la tua etica… cose che non ti insegna nessuno.