La «Domenica di sangue» del 30 gennaio del 1972 non è l’unica data violenta della storia irlandese, né l’unica che viene di anno in anno commemorata, in un calendario tristemente puntellato dalle ricorrenze legate ai massacri di mano inglese subiti nel corso dei secoli di occupazione. Il Bloody Sunday di Derry, città principale di una delle contee ancora parte del Regno Unito, è la più nota non solo per la vicinanza storica, per i tanti libri e film dedicati, ma per l’essere stata la scintilla che ha di fatto portato al centro della scena politica, non solo nazionale, quel «conflitto a bassa intensità» in cui sarebbero consistiti i Troubles, che interessarono l’isola almeno fino all’Accordo del Venerdì Santo del 1998.

Gli scontri erano partiti più o meno dalla fine degli anni Sessanta e i morti non erano mancati, anche tra i bambini: tra questi Damien Harkin, a cui è dedicato il commovente, ma anche divertente e a tratti paradossalmente leggero ricordo autobiografico, scritto da Tony Doherty, Il piccolo di papà, ben tradotto da Maria Antonietta Binetti per Nutrimenti (pp. 224, € 17,00).

Doherty aveva nove anni quando suo padre Paddy fu ucciso dai paracadutisti dell’esercito britannico, uno dei tredici pacifisti freddati dalle truppe ufficialmente presenti sul luogo per garantire la convivenza tra le diverse fazioni, quella repubblicana e quella unionista, fedele al Regno Unito. La strategia narrativa del libro è quella di restringere il punto di vista e presentare i fatti della rapida escalation di violenza settaria con gli occhi di un bambino, uno stratagemma particolarmente fortunato nella letteratura irlandese, dai primi racconti di Gente di Dublino di Joyce a Paddy Clarke, ah ah ah! di Roddy Doyle, e che qui serve forse anche a suggerire la violenza senza che questa finisca per occupare il centro della scena.

Il risultato è che i soprusi dei quali erano vittime gli abitanti repubblicani di Derry, e dello stato nato dopo la separazione del 1922, aleggiano sullo sfondo come in un romanzo distopico in cui le cose sono solo appena fuori sesto e il lettore è continuamente messo alla prova, mentre man mano si immedesima, anche se non è a conoscenza dei fatti irlandesi, in una comunità braccata e asfissiata, in cui i diritti civili (dal voto all’accesso alle professioni) sono negati.

Nel racconto, i giorni e, soprattutto i giochi di Tony non sembrano soffrire quella profonda divisione e, ironicamente, muovono piuttosto dalle battaglie tra «yankee» e «musi gialli», come li chiamano i piccoli abitanti di Derry, un ricordo dell’allora recente guerra mondiale, ma forse anche del contemporaneo Vietnam, in quello che è un tentativo non troppo nascosto, ma neanche troppo esplicito, di riecheggiare il conflitto nordirlandese. L’invasione britannica figura spesso come pura e semplice «invadenza», i cui corpi armati diventano elementi del paesaggio occupando anche il linguaggio, con il susseguirsi di sigle e nomi cacofonici per indicare i militari (b men, Limey, tommies ecc.) che inizialmente fanno forse incespicare il lettore, ma che poi si rivelano necessari (così come si rivela acuta la scelta della traduttrice) nel loro suggerire la tracotanza della presenza inglese a Derry.