Contiene un potenziale esplosivo Tony Cokes, This isn’t Theory. This is History, la grande mostra allestita al Macro di Roma, curata da Luca Lo Pinto (che ne è anche il direttore) e che attraversa la trentennale densità creativa di Tony Cokes (Richmond, 1956). Artista rilevantissimo di area post-concettuale e docente di cultura moderna e media alla Brown University di Providence, si è formato sulle teorie post-strutturaliste e sui concetti (scomodi) di razza e diritti civili di James Baldwin. Nella sua ricerca fa convergere la Black Subjectivity, la pop culture e la cultura dell’intrattenimento.

I SUOI VIDEO sono dei cut-up destabilizzanti nati dall’innesto di testi teorici (Louis Althusser, Malcolm X, Public Enemy, Barbara Kruger, William Burroughs) con musica pop e, a volte, immagini d’archivio. Presi in prestito e campionati, tentano di esaminare i modi in cui l’ideologia e il potere, ancora oggi, influenzano ed egemonizzano l’opinione pubblica. «La musica pop è una prassi sociale», ha dichiarato nel 1997 Cokes. E va analizzata in relazione alle sue pratiche di produzione e di consumo nell’epoca tardo-tecno-capitalista. Ogni suo video è una esperienza quasi allucinogena ed è questa la sua potenzialità psico-visivo-sonora, la scossa percettiva che innesca nella mente dello spettatore.

La decostruzione di Cokes avviene sia intorno all’esperienza stessa della lettura, che da atto solitario diventa comunitario visto che è realizzato in un museo, in piedi e insieme ad altri, sia nel ribaltamento dell’esperienza privata, tipica del consumo dei media. Il suo lavoro polverizza la tradizionale visione, che è spiazzata dal contenuto che si riversa dagli acidi schermi a led sullo spettatore. Concentrando la visione solo sul testo, Cokes, evita l’iconicità delle immagini associate al pop e scalza l’ovvietà del videoclip. L’appropriazione di testo e musica avviene fin dall’esperienza con gli X-PRZ, il gruppo con cui ha collaborato dal 1991 al 2000 e formato insieme agli artisti, Doug Anderson, Kenseth Armstead e Mark Pierson. Le sue mostre dunque rovesciano lo sguardo, calandolo in una dimensione sensoria che destabilizza l’ambiente, producendouna sorta di in-between place galvanizzante, tra disco, cinema e museo. E Disco Inferno sia.

AL MACRO, nell’oscurità dello spazio, ci si immerge in un mood elettrizzante, provocato dai quattro mega-display a led che proiettano, in cadenza, quindici video che ripercorrono i temi trattati da Cokes (il razzismo, la guerra, il capitalismo). Uno dei suoi primi lavori, Black Celebration. A Rebellion Against the Commodity (1988) è uno squarcio visivo anti-capitalistico dei riots degli anni ’60 nei quartieri afroamericani di Los Angeles, Boston, Newark e Detroit, reinterpretato da citazioni di Guy Debord, Barbara Kruger, Martin Gore e giustapposti al brano industrial degli Skinny Puppy.

IN «EVIL.16» (Torture. Musik) è un testo di Moustafa Bayoumi, intitolato «Disco Inferno» a denunciare l’uso della musica ad alto volume come metodo di tortura per i detenuti di Guantanamo e Abu Ghraib e viene intercalato con le track di Britney Spears, di David Gray e dei Metallica. Non manca il famoso The Morrissey Problem (2019) sulle più recenti posizioni anti-immigratorie assunte dall’ex frontman dei The Smiths.

LA CITAZIONE di un articolo di Joshua Surtees, pubblicato sul The Guardian, filtra la perplessità verso Morrissey, regredito da sostenitore degli emarginati a paladino brexista e di estrema destra, in linea con le politiche di Boris Johnson. In Mikrohaus, or the Black Atlantic? (2006-2008) Cokes esplora i temi della Black Diaspora e la sua influenza effettiva sull’arte e sulla musica, attraverso le riflessioni di Paul Gilroy nel suo cult-book The Black Atlantic in cui si evince come la Black culture sia frutto dello schiavismo atlantico e colonialistico. Ad esso si impigliano campioni di techno-minimal, le cui radici affondano nella musica afroamericana come il soul e il funk.

In Margins and Bubbles Pt. 2 (2009) che fa parte dell’Art Critique Series (2008 e ancora in corso) si assiste a una conversazione tra Tino Sehgal e David Joselit sulle idiosincrasie del consumo dell’arte contemporanea. RRK: Reading Rosalind Krauss (2012) è incentrato sulla figura di Rosalind E. Krauss che trasferisce l’ambiguità tra il sistema, la storia e la teoria dell’arte. Cokes irrompe con una trascrizione animata del testo della canzone Reading Rosalind Krauss dei The Size Queens a cui segue l’estratto di un’intervista del 1997 della critica d’arte. E infine Testament A: MF FKA K-P X KE RIP (2019) che attraverso la musica elettronica, intende commemorare Mark Fisher, il pensatore e teorico inglese suicidatosi nel 2017, fautore delle subculture.

Nella visita al Macro, si scopre anche come la scrittura sia la spina dorsale che lo attraversa e lo ossigena seguendo il filo che lega mostre come Artists’ Library: 1989-2021, passando per Mario Diacono, Diaconia. La scrittura e l’arte e perfino Julie Peeters, Daybed.