Esplorazioni topografiche, testi e azioni performative sono gli strumenti multidisciplinari utilizzati dall’artista e architetto libanese Tony Chakar per indagare la storia recente del suo paese. Nato a Beirut nel 1968, Chakar da alcuni decenni analizza quella rete complessa di narrazioni che si sono stratificate tra le rovine della capitale libanese, attraverso interventi di carattere performativo, fotografico e testuale. Beirut, molto più di altre città, è infatti un «palinsesto» di eventi drammatici determinati da opportunismi individuali legati a corruzione, negligenza e a precisi interessi economici e confessionali. Come scrive il poeta Adonis nel libro Beirut. La non-città, la capitale libanese è il luogo della distruzione e della trasformazione e non quello della memoria, «uno spazio inquinato e inquinante, segnato da una sorta di miopia, che si evidenzia attraverso la violenza e la rapina ai danni dello spazio».

CON THE ATLAS GROUP – collettivo non profit immaginario fondato da Walid Raad e attivo tra il 1989 e il 2004 per documentare la storia contemporanea del Libano, attraverso materiale d’archivio, progetti fotografici e videoinstallazioni – Chakar ha realizzato la conferenza-performance My Neck Is Thinner Than A Hair, riguardante la tensione sociale, politica, economica e militare scaturita dalle tante, troppe, autobombe esplose in libano tra il 1975 e il 1991. Più di 3600 bombe che provocarono indicibili massacri nelle città e nei villaggi libanesi. Sky Over Beirut’ (Walking tours of the city) è il titolo di un suo progetto partecipativo, composto da passeggiate da lui commentate nei luoghi distrutti di Beirut, perché «camminare permette di attuare una serie di cadute controllate, riscattare ciò che è andato perduto e penetrare nella città attraverso il tuo proprio corpo», come raccontava prima dell’inizio della passeggiata a cui chi scrive ha partecipato alcuni anni fa.

[do action=”citazione”]È dagli anni Novanta che sono coinvolto nei movimenti che cercano di smuovere il paese. Tanto è stato fatto a livello artistico, ma non politico. Il cambiamento richiederà tempo[/do]

LE OPERE DI CHAKAR sono state esposte nella mostra Contemporary Arab Representations alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2003 e in numerosi musei internazionali come la Fundació Antoni Tàpies di Barcellona e il Witte de With Center for Contemporary Art di Rotterdam, sue mostre personali sono state invece presentate al Bac (Beirut Art Center) e alla Townhouse Gallery de Il Cairo, per ricordarne solo alcune.

Siamo riusciti a raggiungere Chakar nei giorni successivi alla devastante esplosione del 4 agosto, pur nella difficoltà di comunicare, visto che la sua abitazione si trova nei pressi del luogo dove è avvenuta.

Tony Chakar

«NEL 2006, durante il bombardamento israeliano in Libano, avevo scritto un testo che fu molto discusso e commentato intitolato My Little Hiroshima, in cui parlavo della difficoltà di raccontare quello che stava accadendo, del fatto di sentirsi paralizzati dagli eventi. Non volevo cadere nel sensazionalismo e vivere la nozione di tempo e spazio catastrofico che invece mi veniva richiesto di narrare da diverse istituzioni internazionali. Quello che è accaduto il 4 agosto mi ha fatto ricordare quei giorni, anche se in realtà è tutto molto diverso», dice Chakar. «Quello che è successo – aggiunge – non so ancora come elaborarlo a livello personale. L’esplosione ha distrutto il luogo in cui sono cresciuto, le aree della città che conosco meglio: Gemmayzeh, Mar Mikhael e Bourj Hammoud. Tutte le persone che conosco hanno ancora serie conseguenze psicofisiche legate all’esplosione, dall’insonnia all’ipersensibilità, alla difficoltà nel mangiare. Quello che abbiamo visto subito dopo l’esplosione e fino ad ora è la straordinaria solidarietà tra le persone. I volontari sono accorsi da ogni parte del paese per aiutare a ripulire dalle macerie, rendendosi utili in ogni modo possibile, mentre i funzionari che si sono recati nell’area dell’esplosione sono stati rapidamente cacciati dalle persone che stavano lavorando per rimuovere le macerie».

[do action=”citazione”]Non so ancora come elaborare ciò che è accaduto. Sono andati distrutti il luogo in cui sono cresciuto e i quartieri che amo[/do]

GLI CHIEDIAMO se è d’accordo sul fatto che l’esplosione è stata in parte considerata come l’11 settembre del popolo libanese, come hanno affermato diverse persone durante le manifestazioni di protesta che ne sono seguite. «In parte sì, le analogie ci sono, anche se l’attacco delle Torri Gemelle ha cambiato la storia della scena geopolitica internazionale. Non so se quello che è successo a Beirut potrà avere altrettante ripercussioni. Forse è troppo presto per parlarne. Perché, anche se è evidente che molti erano a conoscenza della presenza del nitrato di ammonio, compreso il Presidente della Repubblica, e l’hanno lasciato lì per 6 anni, ed anche se è chiaro a tutti che Hezbollah è il principale protettore del «sistema» – sistema di corruzione e inganno che ha portato a quell’esplosione – ho vissuto abbastanza a lungo in questo paese per sapere che anche se questi fatti sono inconfutabili potrebbero portare a pochi reali cambiamenti nella vita di ognuno di noi. Le dimissioni del governo, composto da politici corrotti che fingono di essere tecnocrati, non significano molto. Un reale cambiamento è difficile da raggiungere. Quello che stiamo combattendo non è semplicemente un sistema che produce politici corrotti, oltre al fatto che si stanno configurando alleanze troppo astratte per essere comprese, a giudicare dalla quantità di navi presenti nel porto distrutto in questo momento, da quelle francesi a quelle inglesi, americane o turche».

ALLA DOMANDA se pensa che non si potranno delineare cambiamenti significativi, Chakar risponde: «C’è tanto da fare. Il vero cambiamento richiederà tempo, lavoro e pazienza, e poi ancora più pazienza. È dai primi anni ’90 che sono coinvolto in ogni movimento che cerca di creare un cambiamento reale. Tanto è stato fatto a livello artistico, grazie anche a istituzioni internazionali che ci hanno sostenuto, ma non politico. Ci sono stati tanti fallimenti che abbiamo accettato. Continuiamo a vivere in questo paese non perché ci aspettiamo un vero cambiamento, e certamente non per speranza in un futuro migliore, resistiamo e combattiamo perché è quello che sappiamo fare. Lo facciamo senza troppe aspettative, inventandoci ogni volta nuove forme di resistenza. E forse un giorno funzionerà, o forse no. Non è importante. La cosa più importante è la vita, pur nelle tante difficoltà».