All’inizio c’è un armadio nella sua casa di Casalborgone. È lì che Tonino De Bernardi ha accumulato i suoi film, quelli in 8mm e Super8 realizzati fra il 1967 e il 1983 che sono, come ogni suo lavoro, frammenti di vita, di epoche, del mondo. I segni e i sogni di un filmare che si intreccia al vissuto, di un gesto che è respiro, amore, slancio, di una macchina da presa che è intima e collettiva. Racconta: «Dentro di me dicevo sarebbero stati l’eredità per le mie figlie Giulietta e Veronica. Poi ho capito che un’eredità simile avrebbe rappresentato solo una grana per loro: cosa se ne facevano dei miei film?».

Così quell’armadio è stato aperto, con la preziosa complicità di Claudia Gianetto che al Museo Nazionale del Cinema di Torino per trent’anni si è occupata del restauro di pellicole – e aveva ritrovato nel 2018 le sei bobine in 8mm di un altro film di De Bernardi, Dei, che l’autore riteneva perdute. «Abbiamo svuotato l’armadio e tutto quel materiale è ora depositato al Museo che lo conserva e preserva in appositi spazi e che ha iniziato il lavoro di digitalizzazione delle copie partendo da quelle girate in piccoli formati, ovvero con i supporti più fragili». È questo uno dei punti di partenza, che come nelle storie di De Bernardi si intrecciano e si sovrappongono fra di loro, della prima personale italiana a lui dedicata, al Museo del Cinema di Torino, col titolo: Tonino De Bernardi. Il cinema senza frontiere. Una mostra – visibile negli spazi del Museo, dal 24 aprile al 9 settembre – una retrospettiva dei film, una performance, un volume con saggi e interventi che insieme provano a esplorare il fare-cinema di un filmmaker unico, figura «fuorinorma» nell’underground italiano e internazionale, seguendo le infinite piste tra privato e politico (o, meglio, privato politico) disseminate nel suo immaginario. E che sono l’inizio di un’archiviazione della sua opera.

A curare il progetto con meravigliosa caparbietà è Alberto Momo, che ha rintracciato copie introvabili, scritti, soggetti, sceneggiature (tantissime) mai girate – tutti quei materiali del fuoricampo che nel cinema di De Bernardi afferma una narrazione e porta in sé i segni dell’epoca, le sue battaglie, i mutamenti della società. Il Living Theatre e il ’68, Allen Ginsberg e Jonas Mekas, le lotte per l’ambiente dei ragazzi di oggi, le trasformazioni della tecnologia, la pellicola e il digitale. E le storie e la storia, le attrici – da Iaia Forte a Isabel Ruth e Isabelle Huppert – la famiglia, le figlie, i nipoti, gli incontri, l’amore. Un universo di esistenze che si toccano, si uniscono, si fanno immagine. Che sono tempo, memoria, presente nel gesto ininterrotto del suo filmare.

La conversazione a quattro che segue è avvenuta su zoom. Alle spalle di Tonino e di Alberto, nella casa torinese, ci sono i quadri di Veronica. Tonino ce ne mostra anche uno suo mentre le loro voci a volte si sovrappongono, altre spariscono in qualche interferenza.

Che storia cerca di raccontare questa retrospettiva fra la mostra, i film e il resto?

Tonino De Bernardi: Racconta me, chi sono, un certo modo di fare cinema. Durante il Covid ero costretto in casa e ho cominciato a scrivere una cosa che si chiama Vita mia e altrui dove parlo della mia vita e di quella degli altri che ho incontrato e sono stati importanti per me. Parlo anche dei libri, che sono il mio nutrimento. Ho sempre amato scrivere, la scrittura è fondamentale per me come lo è stata la pittura. Ero una persona inespressa alla ricerca di un suo modo per uscire fuori. Provo a spiegarmi. Sono di Chivasso e quando ero ragazzo la città non aveva le scuole superiori per cui, finita la scuola media, ho iniziato a fare il pendolare giornaliero con Torino dove ho fatto il liceo classico. Mi piaceva studiare, ero bravo. Dopo i due anni di ginnasio, due nuove compagne al liceo mi hanno fatto scoprire il cinema. Al mattino andavo a scuola, rientravo a casa a Chivasso per pranzo e poi, poco per volta, avevo preso l’abitudine, insieme a degli amici, di tornare nel pomeriggio a Torino per andare a vedere i film. È stata essenziale la lettura della rivista «Cinema Nuovo» diretta da Guido Aristarco, che divenne la mia guida. A Chivasso avevamo creato un circolo culturale all’interno del quale c’era anche un cineclub. La nostra sede era nella Casa del Popolo e ci accusarono di essere comunisti, e in effetti lo eravamo. Essere comunisti a quel tempo significava che bisognava lottare. Venivo da una famiglia socialista la cui vita era stata difficile. Tutte queste cose le ho raccontate, ricorrendo alla voce fuori campo, nel mio penultimo film Universi circoscritti 2.

In che modo avete organizzato in materiali in mostra tenendo presente l’impossibilità di «chiudere» il cinema di Tonino in generi e schemi? Anche una semplice cronologia sarebbe un po’ stretta.

Alberto Momo: Il Museo ci ha chiesto di mettere poche cose mentre Tonino è accumulazione. Questo «limite» ha rappresentato una grande difficoltà. Abbiamo cercato di riempire il percorso con dei «segni» che rimandano a passaggi importanti nel suo cinema e nel suo vissuto. Ci sono due sezioni: La casa e Il mondo – o Qui e L’altrove. La prima è più intima, racchiude i suoi lavori fino a Donne (1980-1982), con gli esordi, Casalborgone, una raccolta di primi piani e di ritratti di cui Donne, con le sue dodici ore, rappresenta l’apoteosi. Di quel film si vedrà la prima parte che è stata restaurata, e ha recuperato anche un ottimo sonoro. Mettere tantissimi visi è uno dei «segni» di cui parlavo. Volevamo dire: quante persone avrà filmato Tonino? In questa sala è citata una frase di Jonas Mekas che diceva che quelli di Tonino sono i più bei ritratti visti nei film. Ci sono poi i suoi scritti, c’è il cinema del Sessantotto, che è stato per lui una spinta. La seconda, Il mondo, ripercorre i viaggi, le esperienze che hanno caratterizzato la poetica di Tonino con fotografie dai set e progetti non realizzati. Esploriamo come da Elettra (1987) inizia a inventare la sua maniera di fare finzione, e anche i rapporti a volte complicati con le produzioni. A legarle c’è una parte con i suoi strumenti di lavoro: cineprese, telecamere, moviole che spiegano l’aspetto materiale del fare cinema indipendente attraverso sessant’anni di trasformazioni. Nella prima stanza ci sono anche due proiezioni, una è su un tavolo che avevamo immaginato pieno di pane – ma era impossibile per ragioni organizzative – con sopra i ritratti delle persone vicine a Tonino in quel periodo, e uno con dei film su multi-schermi che riunisce Il vaso etrusco e Il bestiario. Tra una stanza e l’altra abbiamo montato due grandi schermi con gli Uccelli a indicare il passaggio verso la finzione. Ne Il mondo oltre ai luoghi – Napoli, l’Africa di Nomade, viandante, quasi fuggiasco (1990), Leçons de ténèbres (1990-‘92), i lavori video di fine anni Ottanta e inizio Novanta che sono i più danneggiati – abbiamo immaginato una stanza di Tonino con le sue confessioni, la famiglia. È qui che vogliamo mettere i suoi scritti, Marilyn, un pezzetto non montato di Piccoli orrori in cui dice a Marco Melani «Voglio fare un film» e Melani risponde «Si può fare e anche non fare». I suoi quadri, le sceneggiature sviluppate e i soggetti scritti per qualsiasi luogo della terra. Ci sono poi le presentazioni di Enrico Ghezzi, quando si parla di distribuzione, perché Fuori orario è stato distributore dei film di Tonino e a volte produttore. E un’intervista di Gigi Marzullo che ci sembrava significativa a dire la sua inconciliabilità con un certo sistema. Era stata fatta ai tempi di Appassionate, Tonino lo ascolta stupefatto, ha addosso la canottiera, i pantaloncini, i sandali, le gambe sono pelosissime e ha pure le sporte della spesa. Alla domanda sulle figlie che sono sempre sue attrici dice: «È un amore incestuoso». Lui è sempre stato un sabotatore.



Tutto questo si accompagna alla salvaguardia del patrimonio filmico di Tonino resa possibile grazie al Museo del Cinema. Ciò vuol dire che i film potranno essere nuovamente proiettati, fruibili da nuovi spettatori. Quanto è importante questo aspetto di archiviazione attiva?

AM: Tonino ha sempre lavorato, salvo i pochissimi casi dei film girati in 35mm, con i formati più poveri possibili. Comincia a fare cinema nel 1966-’67, quando bastava avere un amico che si prestava e una 8mm, che costava molto poco, per fare un film. Il Super8 l’ha usato a partire dalla fine degli anni Settanta e dall’inizio degli anni Ottanta. E riguardo al 16mm, era successo che buona parte della pellicola degli Uccelli fosse un bianco e nero russo scaduto che qualcuno gli aveva regalato. In questo modo ha fatto un centinaio di film. Col progetto del Museo tutto il primo cinema di Tonino si riesce a mettere in sicurezza. È prevista la costruzione di un archivio il più completo possibile. La parte dell’immagine ha tenuto molto bene. Quella dell’audio è più complessa. In alcuni casi erano film realizzati con una pista magnetica separata che veniva associata, mentre altre volte il sonoro in sala veniva ottenuto con tanti diversi mezzi. Si tratta di un lungo lavoro di indagine che va fatto e che è ancora difficile da precisare perché spesso sulle bobine dei nastri non c’erano indicazioni o erano minime. Ogni giorno scopriamo qualcosa. Per fortuna c’è una coincidenza con la vita che permette, attraverso la biografia, di fare delle datazioni. Se vedo Giulietta molto piccola o Veronica che sta piangendo come neonata, allora certi nastri si possono datare abbastanza precisamente. In aiuto vengono anche delle ottime schede che Massimo Bacigalupo aveva fatto all’epoca per delle riviste.

TDB: La cosa fondamentale è che nel 1995 è stato pubblicato un libro (Dalle lontane province. Il cinema di Tonino De Bernardi) curato da Stefano Francia e Sergio Toffetti che mi ha unificato. Ai miei esordi chiamavo quello che facevo «cinema dell’utopia» perché eravamo mossi dalla convinzione di cambiare il mondo, cambiarlo nel modo di vivere, figurati se pensavamo all’archiviazione. Quando ho iniziato a insegnare andavo a scuola con la cravatta, poi l’ho gettata via. Pensate alla mia ingenuità: credevo che la cravatta non sarebbe mai più tornata nella vita di un maschio.

Tonino, hai rivisto questi lavori mentre li avete recuperati?

TDB: Qualcuno. Ho visto gli Uccelli. Ho visto Fregio, fatto nel 1968 a Casalborgone con i miei allievi, di cui ho un ricordo straordinario. Ho cominciato con l’8mm perché volevo fare il cinema muto e le sovrimpressioni che con il Super8 non era possibile realizzare. Mi interessava proprio l’aspetto visivo, lavorare con più schermi sovrapposti, volevo uscire dal riquadro dello schermo perché sono contro le frontiere. Anche le guerre in corso fatte nel nome delle frontiere sono la cosa più terribile che possa succedere. Per cui sono partito con l’intenzione di abolire le frontiere nel cinema, di fare un cinema espanso. Ho sempre voluto, e voglio ancora, catturare la vita altrui che dà un senso alla mia. Mi interessa la persona che ho davanti ma anche tutto quello che entra da sinistra e da destra nell’inquadratura e che fa vedere gli altri. Voglio abbattere il confine tra cinema e vita, perché tutto è in movimento, e cambia. Per esempio: quando abbiamo girato il primo ciak di Appassionate a Napoli mi sono chiesto: «Ma cosa succede?». Su una scalinata di solito frequentatissima non c’era nessuno perché la strada era stata bloccata per le riprese. Allora ho detto che ero andato a fare il film a Napoli proprio perché in quella città c’è il caos che io non volevo fermare. Da quel momento le cose sono cambiate e tutti potevano entrare liberamente nelle scene. Certo, in questo modo è stato più complicato lavorare, ma per me era indispensabile. Prima di morire vorrei fare ancora un film a Napoli. Ci ho tentato e io e Mariella (Navale, moglie di Tonino, ndr) ci siamo stati una settimana nel giugno di quattro anni fa. Era per il film Il mare non bagna Napoli, da Anna Maria Ortese, in una città straordinariamente mutata. Però volevo le stesse attrici di Appassionate, compresa Isabel Ruth. Io filmavo con la camera a mano. Ma proprio lì ho cominciato ad avere difficoltà a camminare, e lo abbiamo messo da parte. Invece stiamo facendo di tutto per poter girare tra giugno e luglio il film con Isabelle Huppert che ha dato la sua disponibilità, come pure Renato Berta. Ci sarà anche sua figlia Lolita Shammah e poi Joana Preiss. Sarà quasi tutto girato in Piemonte, tra Casalborgone e dintorni e Torino, più alcune scene al porto di Genova perché il film parla di migrazioni a inizio Novecento. Una condizione che fa anche parte della storia della mia famiglia.

Tra i «segni» disseminati nella mostra, ce ne sono di particolarmente significativi?

TDB: Uno è senz’altro Donne, un film che è stato un’esperienza per me molto importante e ha prodotto un cambiamento nel mio modo di fare cinema. Ho filmato per due anni le nostre amiche, le ho seguite nelle loro vite, nei luoghi dove andavano. Come Anela, la moglie di Bacigalupo, che era di origine tedesca: sono andato insieme a lei in Germania, ho filmato sua mamma sul lago di Costanza. Un altro è la Grecia. Una delle nostre più grandi amiche, Sandra Bosco, aveva sposato un greco, Niki, e ogni estate andavamo insieme a loro sull’isola dove lui era nato. La Grecia era diventata per me una seconda patria, anzi la sentivo più mia dell’Italia. Poi è venuto il Portogallo, Lisbona. Con Bacigalupo avevamo anche il mito dell’India e a un certo punto un’estate, dopo la scuola, io già insegnavo, siamo partiti per scoprirla. Lui è quello che io chiamo un genio precoce, aveva iniziato a fare cinema e vent’anni, i suoi gli avevano comprato subito una 16mm mentre io ne avevo già trenta e avevo una 8mm. Abbiamo preso un pullman da Istanbul, siamo arrivati in Afghanistan ma io sono dovuto tornare indietro perché avevo gli esami di riparazione. L’ho raccontato in Il sogno dell’India – Quarant’anni dopo (2015). Sono riuscito a arrivarci grazie a Isabelle Huppert perché invitarono al festival di Mumbai Médée miracle (2007). Un altro «segno» rimanda a Rosanna Paradiso, una mia grande amica. È stato il momento in cui ho fatto cinema dichiaratamente «nel sociale» e corrisponde a Mudar de vida – Libera vita (2016), in cui l’ho filmata. Rosanna a Torino era la direttrice di Tampep, l’organizzazione internazionale che si occupa della prostituzione sia femminile sia maschile.

Sei stato uno dei protagonisti che ha portato l’Italia nel movimento dell’underground. Quali erano i tuoi legami più importanti?

TDB: Mekas con l’American Cinema è stata una figura di riferimento, anche se per me era troppo «regolare» – infatti ha creato l’archivio e diffuso il cinema americano. Però mi ha fatto capire che ciascuno poteva fare il proprio cinema, che si poteva prendere una camera e filmare come si voleva. E soprattutto il Living Theatre, con cui ho scoperto un teatro che portava l’arte in strada e iniziava già nel loro modo di vestirsi. In quegli anni era venuto a Torino anche Allen Ginsberg, era meraviglioso con le sue collane. Vide il mio Il mostro verde (1966-‘67) e lo amò moltissimo. Nel finale c’è il suo Urlo (Howl) di cui viene ripetuta una frase. Quando mi chiese il perché di quella scelta gli dissi che si era rotto il disco e la cosa lo entusiasmò. Lui, William Burroughs erano le mie bussole, come la pop art e Andy Warhol.

La finzione cosa è per te?
TDB: Io divento chi filmo, chi ho davanti. Quindi figurati con le attrici, le venero, con alcune poi, come Isabel Ruth, siamo diventati molto amici. Ma non ci sono frontiere tra loro e gli altri. Per me c’è sempre un centro che è la persona (o attore o attrice) che sto o stiamo filmando, e mi interessa «captare» qualcosa di chi passa o esce ai lati e va oltre l’inquadratura e vive la sua vita che io non conosco. La differenza è data dalla pratica del set, la finzione prevede una struttura che dovrebbe andare all’unisono con me; per questo voglio la mini-troupe e gente che conosco. La priorità è sempre il cinema. Adesso che devo camminare con un carrellino cerco di adattarmi a questa limitazione e filmo fuori, in strada, parlando con tutti – a volte penso che mi vedano come uno un po’ matto. Ho ripreso in strada Mariella che legge a puntate Luce d’agosto di William Faulkner. Io filmo e capisco che faccio una cosa non così classificabile. Ma è quella scrittura poetica, scomposta, che mi piace, che mi fa sentire vicina Patrizia Vicinelli. Lei mi ha dato tanto. A Patrizia (1968-’70) è il solo film che nel titolo ha il nome della persona reale che ne è protagonista.

Ecco, i titoli dei tuoi film come li pensi? Sono fantastici.

TDB: Ognuno è molto importante. Prendi Piccoli orrori: mi è venuto riflettendo sulla vita, che è fatta di tanti piccoli orrori, avvenimenti che in sé sono degli orrori ma anche piccoli perché si ripetono – come l’allagamento della casa. Sorrisi asmatici è un film errante, una «enciclopedia tascabile del vivere», un film sul difetto, per cui ogni movimento su questa terra è più difficile. Una donna, mentre giravamo, mi chiese se stavamo facendo uno spot. Le risposi che era un film e quando seppe il titolo mi disse: «Ma allora parla della malattia!». Invece per me significa che nella vita vorresti sorridere ma c’è sempre qualcosa che lo impedisce e il sorriso diventa difficoltoso.

Il programma comprende anche una performance. Ce ne vuoi parlare?

TDB: Mi piace moltissimo recitare, addirittura qui canto You Are My Destiny che adoro. Mi riporta a Chivasso quando c’era ancora Pia Epremiam, anche lei nata lì e insieme a altre due amiche davano scandalo perché erano ragazze libere. La performance si chiama Interminabile illusione/The Art of Making Dreams. Ho in mano la camera, come sempre, filmo noi, chi sta guardando, sono un gigante che porta sogni. In scena con me ci sono mia figlia Giulietta, e Caterina (Momo), mia nipote, che è danzatrice. Il cinema è sogno, io danzo con lei, la filmo. Giulietta agisce, è regista-scenografa di teatro in volo tra veli e non, si muove sempre, anche tra il pubblico e io filmo lei e il pubblico. Per me è molto importante questa performance perché desidero mostrarmi fisicamente nel ruolo di regista-attore, a contatto concreto con gli spettatori. Il teatro ha corpi veri, presenti, è diverso dal cinema, in scena i corpi schizzano e provocano cortocircuiti. Nella storia mia nipote non riesce e dormire, dunque non sogna, si chiede: «Come faccio a dormire quando vedo come va il mondo?». Sullo schermo viene proiettato Fregio, ma il sonoro sono i sogni dei ragazzi di oggi. Vogliamo mescolare le generazioni, la performance è un incontro-scontro tra diverse età nell’idea di rinnovare la vita verso il futuro che è sempre più difficile. E allargarci in un abbraccio collettivo lanciando messaggi di speranza.