Cinema di sortilegi. Ha un titolo bellissimo, l’ultimo libro (edito da La Vita Felice) di Tommaso Ottonieri, tra gli ultimi dinosauri di quello sperimentalismo poetico che in Italia nasce con Dante, per arrivare nel XX secolo fino a Antonio Pizzuto, Edoardo Sanguineti (che introdusse nel 1980 il primo libro di Ottonieri, Dalle memorie di un piccolo ipertrofico), Elio Pagliarani, Patrizia Vicinelli e a quei pochi molti che hanno proseguito e rilanciato quel percorso. Un libro di prose, dove la parola si smarca costantemente dalle catene del linguaggio comune, si ribella a ogni istante al canone, anche quello sperimentale (come già era in Elegia sanremese, del 1998, dove Ottonieri giocava coi testi di Nilla Pizzi, di Tenco, di Celentano…).

Un libro di racconti possibili, di movimenti, di suoni, di salti, di tagli di montaggio. Una trama di parole liquide, deformanti la pluralità di sensi toccati, anzi graffiati dalle schegge scomposte di una lingua tutta da inventare, a ogni momento, a ogni segmento, a ogni interstizio tra un’immagine e l’altra, in sovrimpressione, in dissolvenza incrociata con quel che non si può vedere di quel che si vede.

Ed è su quel crinale paradossale che Ottonieri si muove costantemente, laminare, come a tagliare lo schermo (un po’ Don Chisciotte di Orson Welles, un po’ Mario Schifano), a togliere e far saltare gli schemi (quelli narrativi, quelli metrici, quelli grammaticali): «E non potevo che stringermi in quel cono liquido, liberato dall’errore della luce; che esplorare il mio mancarsi, fissare la bolla, in cui espandersi, del suono, saggiarne la parete di cristallo: sapendo quanto in ogni attimo, dell’eccedersi d’un soffio, quella potrebbe gonfiarsi, detonare per schegge infinitesime». Schegge di cui sono composti gli ambienti narrativi che il libro evoca in forma di sortilegio, di rapporto occulto tra l’occhio e la parola, tra il movimento e il cristallo (infranto nel proprio infernale trasparire). Schegge di una fuga senza fine, di un dispendio senza remore, di una memoria del futuro cieca e ostinata, dolce e aspra nel contempo (e del resto Crema acida è il titolo di uno dei suoi libri ’narrativi’ più belli, del 1997).

Ma Tommaso Ottonieri è anche il suo ortònimo, Tommaso Pomilio, autore a sua volta di testi critici relativi alla tradizione del nuovo nella letteratura italiana, disciplinarmente trasversale (gli piace giocare), che contemporaneamente ha pubblicato (per il verri edizioni) Il rovescio di un minuto, un libro sul cinema verbale, sul cinema della scrittura che emerge da autori come Dino Campana, Cesare Zavattini, Beppe Fenoglio, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi, Luigi Malerba, Andrea Zanzotto, Carmelo Bene, Guy Debord, i novissimi. Più didattico rispetto a Cinema di sortilegi (che non parla di cinema ma lo è, lo incarna), Il rovescio di un minuto raccoglie e sviluppa alcuni degli scritti che Ottonieri negli ultimi vent’anni ha dedicato non al cinema di scrittura, ma alla scrittura di cinema, alle scritture che in sé si fanno schermo, possibilità verbale di esser cinema, senza necessariamente farsi traslare in immagine, anche se diversi degli scrittori avvicinati lo hanno realizzato (Zavattini, Bene, Debord) e altri ne sono stati importanti sceneggiatori (Flaiano e Malerba su tutti): «non solo (non più) lo scheletro-luce di ripresi panorami subito immaginari, di sequenze fluttuanti, disanimate, sulla tela, ma più e più, l’atto del medesimo vedere. Del vedere la luce. Cerchio dentro cerchio: un riavvolgersi di sguardo, inabissante alla ricerca del fluido alla sua base, mai più rappresentazionale. La Cinematografia Sentimentale, non è solamente l’esperienza della sala (della baracca): dal fulcro delle visioni proiettive, è già, piuttosto, un cinema totale, moto infinito della vita in blocco, tratta dal fondo, presa alla sua radice d’ombre (dal bulbo della lampada). Assorbimento del mondo dalla punta dell’iride, come da un imbuto di luce che si stringe verso l’orbita, a tagliare fuori sclerosi di rappresentazione, per il solo impulso ad accadere, solamente accadere, in un vorticare istantaneo di Elemento».

Non è una scrittura facile quella di Ottonieri, non consola, piuttosto spiazza, sposta, provoca e rimodella le parole come alcuni grandi cineasti hanno provocato e rimodellato le immagini (basti pensare a Epstein – più volte citato – o a Bunuel, a Brakhage, a Bene), a cercare quella che lui stesso (citando Sanguineti) chiama «poesia dell’Apparizione», «che, forse, non è esattamente Visività, non esattamente Veggenza, non esattamente Visione».

Una poetica fatta di paesaggi verbali, di proiezioni, di dissoluzioni, di spazi e di tempi, collassanti in una scrittura che fende e squarcia lo schermo del linguaggio che crediamo di conoscere: quello poetico, quello critico, ma anche quello cinematografico, poiché non è la mimesi che Ottonieri/Pomilio cerca, né la trasposizione, ma il rovesciamento, l’asimmetria, un divenire altro che sia un oltre della lingua. Una lingua dinamica che si fa dinamite «dove il motivo è solo nel collegamento. Nel pulsare dei contatti in un riverberarsi integrale come senza rete. Nello sfrigolio del sonno elettrico i fotogrammi si fondono; non un moto sequenziale, ma è il quadro, che si squarcia e apre su se stesso. Dal suo centro, la celluloide si perfora di fiamma. Brucia nella sua cornice. Alchimia dell’immagine-verbo: nulla si muove ma tutto vibra, quel nulla che è: un vento inverso gira a spirale per trarre al punto infinito del nulla-dio, che assai più si trova all’indietro di quel vorticare d’iride (non più di fronte, non nell’alto collassare in Tutto dello Schermo)».