Su Google Maps l’area container di Tolentino è indicata con un quadrato rosso e ha gli orari di apertura e di chiusura come uno dei tanti centri commerciali della zona industriale. Vista dall’alto sembra un campo profughi, piazzata nel nulla tra il fiume e le colline, a qualche centinaio di metri dalla fabbrica della Poltrona Frau e da un emporio fallimentare. Fuori ci sono delle roulotte, perché qualcuno vive anche lì. Dentro, gli abitanti sono quasi 250, alloggiati in camerette da due metri e mezzo per quattro, con due letti ciascuno, i servizi in comune e la sala mensa. I corridoi dei tre blocchi sono tutti uguali, di plastica e di acciaio, tra il grigio e il beige, con il pavimento di linoleum che scricchiola sotto i piedi. Tutto questo è in affitto e costa alle casse pubbliche oltre un milione di euro ogni anno.

TOLENTINO È L’UNICO comune del cratere del terremoto che ha scelto di non dotarsi di Sae, le famose casette provvisorie che pure stanno dando problemi ma che almeno sono una risposta in grado di dare un po’ di autonomia agli sfollati.

È stata una scelta ponderata, almeno a quanto dice il sindaco di destra Giuseppe Pezzanesi, che due anni fa, quando le persone cominciarono a entrare nei container, garantì che da lì si sarebbe passati direttamente alle case. Le cose da allora, però, devono essersi complicate parecchio, perché fin qui di case ne sono state consegnate appena quattro in tutto il paese e in via Vittorio Veneto – una delle vie sgomberate perché completamente distrutte dal terremoto – si vede un solo palazzo impacchettato, e addobbato da un timer digitale che segnerebbe i giorni che mancano alla consegna del cantiere: 180 giorni alla fine dello scorso febbraio. Si vedrà.

«La verità – spiegano Flavia Giombetti e Dario Matteucci del Comitato 30 Ottobre – è che con questi container si è cercato di risolvere anche il problema abitativo di Tolentino». Non solo terremotati, dunque, ma anche persone che avrebbero diritto a una casa popolare e non l’hanno mai avuta perché le liste d’attesa sono lunghe e scorrono troppo lentamente.

GLI ABITANTI DEI CONTAINER sono per lo più stranieri, ma ci sono anche italiani, per lo più anziani e famiglie numerose, ma si trovano anche professionisti e lavoratori che ogni mattina prendono la macchina e vanno in ufficio o in fabbrica. La situazione è complessa, l’unica cosa chiara è che qui ci sono finiti per lo più gli ultimi degli ultimi, quelli che nemmeno con il contributo per l’autonoma sistemazione (a Tolentino in 3.400 la percepiscono) riescono a trovare qualcuno che affitti loro una casa.

«È DRAMMATICO, ma c’è una spiegazione – prosegue Giombetti –, il Cas arriva sempre con mesi di ritardo e se uno non ha un lavoro o guadagna troppo poco per versare caparre e anticipi, è quasi impossibile che trovi un appartamento vero da affittare». A febbraio sono stati versati i soldi di novembre, tanto per rendere l’idea, e in passato le attese sono state anche più lunghe.

Gli abitanti dei container hanno facce stanche e poca voglia di parlare, un atteggiamento classico per i protagonisti di un dopo-sisma che in realtà è un eterno durante: rinuncia, desolazione, fastidio. È passata anche la voglia di protestare, perché tanto l’impressione è che non cambi niente. La protezione civile se n’è andata da qualche mese, così come non ci sono più postazioni di polizia. Le porte delle strutture sono sempre aperte e può entrare chiunque.
«Ormai ho rinunciato alla mia privacy – racconta una signora che, accappatoio in mano, sta andando a farsi una doccia –, abbiamo chiesto almeno delle chiavi per il bagno, ma non ci hanno mai risposto…».

Non si capisce chi è amministri questo posto, gli uffici della segreteria sono vuoti, alcuni cartelli nei corridoi indicano una serie di numeri da chiamare in caso di emergenza. I volontari si fanno vedere una volta ogni tanto: due volte a settimana c’è il servizio di assistenza psicologica di Emergency, gli Scout gestiscono un tendone per far giocare i più piccoli, la sala per lo svago è uno stanzone con quattro divani, tre sedie rotte e qualche tavolino malfermo. Lo scorso dicembre, fuori dai container, è stato inaugurato un parco giochi con degli scivoli e delle altalene.

«È una bella cosa – dice una ragazza con il figlio piccolo al suo fianco –, ma ci preoccupa anche, se stanno arredando l’area vuol dire che non ce ne andremo tanto presto. Quanto tempo ancora dovremo rimanere qui?».

Nessuno ha una risposta precisa a questa domanda. In un’ordinanza della protezione civile si parla dello stanziamento di 21 milioni di euro per la costruzione di case, ma le tempistiche vengono individuate in almeno cinque anni.

«Si parla di tante cose – riflette Matteucci –, è in programma la costruzione di un blocco di case popolari con quaranta appartamenti, ma sarà l’Hotel House del domani». L’Hotel House è un casermone che si trova a Porto Recanati, sulla costa maceratese, dentro il quale vivono diverse migliaia di persone in condizioni pressoché drammatiche da decenni, senza servizi e senza alternative, con le istituzioni che sembrano impegnate soltanto a cercare un modo per sgomberarlo, anche se non si ha la minima idea di dove mandare dopo gli inquilini.
Intanto, allora, la vita nei container prosegue.
«Queste strutture possono durare anche dieci anni», sostiene il sindaco Pezzanesi. E queste parole fanno tremare la comunità costretta alla vita in scatola. Perché se dentro è un inferno in cui si soffoca d’estate e si gela d’inferno, fuori non c’è niente. Per raggiungere il paese c’è un autobus che passa, quando passa, una volta ogni ora. Il resto è attesa. Passa il tempo, passano le amministrazioni e i governi, passano le promesse, passa la voglia di farcela, passa tutto. Qui in fondo è tutto passato. E nessun futuro.