«Le relazioni tra Corea del Sud e Giappone sono molto compromesse ed è difficile mantenere un sistema di esportazione basato su una relazione di fiducia»: questa è la motivazione ufficiale data dal ministero dell’economia giapponese per l’imposizione di misure restrittive alle esportazioni verso la Corea del Sud.

Le restrizioni sono entrate in vigore ieri e riguardano tre materiali ad alta tecnologia necessari per la produzione degli schermi e dei microchip degli smartphone coreani. Tokyo colpisce un settore strategico dell’economia coreana, si pensi a colossi del settore come Samsung.

Le relazioni tra i due paesi hanno iniziato a deteriorare nell’autunno scorso a causa di due sentenze della Corte suprema coreana che ha riconosciuto un risarcimento a una decina di lavoratori forzati coreani durante l’occupazione giapponese della penisola tra il 1910 e 1945. Queste sentenze e i successivi sequestri di azioni in joint venture nipponico-coreane hanno profondamente irritato il governo e le industrie giapponesi, che ora si ritrovano potenzialmente esposte a molti altri casi.

Per Tokyo ogni questione relativa ai risarcimenti è coperta dal trattato che i due paesi hanno firmato nel 1965: il Giappone diede alla Corea 300 milioni di dollari di aiuti diretti e 200 milioni in prestiti di favore a copertura di ogni questione patrimoniale tra i due governi e tra i rispettivi cittadini.

La Corte suprema coreana ha ritenuto invece che il diritto al risarcimento dei singoli cittadini, in alcuni casi, permanga nonostante il trattato. L’amministrazione nipponica ha chiesto più volte l’intervento del governo di Seoul, ma l’amministrazione Moon non ha voluto – o potuto, per non sollevare l’opinione pubblica – interferire.

Alcune fonti dell’amministrazione giapponese che hanno parlato delle misure restrittive non hanno fatto riferimento a una ritorsione, ma al contesto di pericolo per la sicurezza del paese nella destinazione dei prodotti coreani. Il timore che vi si legge in controluce è legato alle forti aperture del primo ministro sudcoreano Moon Jae-in verso la Corea del Nord, invise all’amministrazione giapponese, fautrice della linea dura verso Pyongyang.

A questi due elementi centrali si aggiungono altri due recenti sviluppi negativi per la fiducia reciproca. Il governo sudcoreano ha chiuso la fondazione che eroga i risarcimenti alle prostitute forzate coreane nei bordelli militari giapponesi durante la seconda guerra mondiale. La fondazione era l’architrave di un accordo tra i due governi del 2015 a chiusura di un’altra questione molto emotiva. Per Tokyo rappresenta un’ulteriore dimostrazione dell’inaffidabilità di Seoul.

Ci sono stati poi una serie di incidenti in mare avvenuti a inizio anno che hanno coinvolto marina coreana e aviazione giapponese. La Corea ha accusato l’aviazione giapponese di usare voli di sorveglianza in modo aggressivo per la sua flotta militare, mentre il Giappone ha accusato a sua volta la marina coreana di utilizzare i propri radar in modalità offensiva sui velivoli giapponesi.

Per Moon il mancato incontro con Abe all’ultimo G20 di Osaka a fine giugno è stato infausto. In questo clima il lunedì successivo è arrivato l’annuncio del ministero. Le misure consistono, per il momento, nella necessità di un permesso di esportazione, che richiede 90 giorni e può essere negato per motivi di sicurezza nazionale.

Questo causerà ritardi nelle consegne, ma la posta in gioco è ben più alta: la possibile cancellazione dalla lista dei 27 paesi con trattamento preferenziale. Tokyo vuole costringere al tavolo delle trattative una finora riluttante Corea del Sud e mettersi in una posizione forte per i negoziati. Per oggi sono previsti i primi incontri tra le parti a Tokyo.