Nel suo fluviale discorso di accettazione del Nobel pronunciato nel dicembre scorso a Stoccolma, Olga Tokarczuk ha dichiarato di sognare «una narrazione in quarta persona», capace di trascendere «la prigione non comunicativa dell’io» e di restituire al lettore il senso del legame misterioso che connette tutte le creature. Solo uno sguardo «onnicomprensivo», sintetico, in grado di abbracciare e svelare le costellazioni dell’essere avrebbe potuto, secondo la scrittrice polacca, favorire l’avvento di un «nuovo racconto universale», animato da una diversa percezione delle nostre responsabilità.

Una prospettiva sempre più imminente, a suo giudizio, se è vero che tra le poche conseguenze positive della globalizzazione rientra l’«avere rivelato come ogni gesto ‘qui’ sia legato a un gesto ‘là’, come una decisione presa in una parte del mondo si traduca in un determinato effetto altrove, rendendo sempre più labile la distinzione tra ‘mio’ e ‘tuo’». Che l’esistenza di queste mutue interrelazioni abbia assunto di recente tratti apocalittici, manifestandosi di colpo sotto forma di pandemia, è una sebbene triste riprova dell’intuito non comune di Tokarczuk nel tessere storie che smentiscono l’eventualità stessa di una visione atomistica del reale, riattivando al contrario il senso del tutto.

Ambientato vicino a Nowa Ruda
Ne è un esempio Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, tradotto nel 2012 per Nottetempo da Silvano De Fanti e ora ripubblicato da Bompiani (pp. 272, € 18,00). Sapientemente camuffato sotto le mentite spoglie di un noir ecologico, il romanzo apparso in Polonia nel 2009 contiene in realtà una riflessione ben più complessa sui limiti dell’empatia umana nei confronti sia dei propri simili sia delle altre specie, e sulla crescente difficoltà di immaginare mondi diversi dal nostro. Janina Duszejko, animalista dalle posizioni oltranziste, è l’io narrante cui Tokarczuk affida, modulata con l’abilità di un ventriloquo, una voce lievemente ossessiva che mette in scena elementi riconoscibili del proprio vissuto, prendendone però le distanze con evidente autoironia.

L’azione si svolge su un remoto altipiano ai confini con la Repubblica Ceca, non distante dalla località di Nowa Ruda che l’autrice ha eletto dal 1998 a suo buen retiro; e non a caso, tra le dimore dei villeggianti che Janina si incarica di sorvegliare durante l’inverno rientra anche quella di una fantomatica scrittrice. Nel soliloquio della protagonista – una insegnante di inglese vegetariana, appassionata di astrologia e traduttrice delle opere di William Blake – ogni dato reale si dilata in maniera spropositata, ogni ragionamento viene condotto alle estreme conseguenze, fino ad assumere tonalità vagamente grottesche. Avviene così, per esempio, che la letteratura sia messa sotto accusa, in quanto rea di sottrarre alla realtà con le sue «vane» parole quanto esiste «di più importante: l’inesprimibile». Oppure che la Cechia si trasformi in una sorta di paradiso terrestre dove la caduta nel peccato originale non è mai avvenuta – lo testimonia la lingua «morbida e infantile» che vi si parla. In fondo, la lotta senza esclusione di colpi intrapresa da Janina contro i cacciatori che infestano l’altipiano altro non è se non una disperata ricerca di Eden, una crociata ecologista ispirata dal bisogno di assoluto, che nella nostra società attuale non può apparire se non anacronistico: «Sono cresciuta in un’epoca bellissima che purtroppo è passata. C’era una grande disposizione ai cambiamenti e la capacità di immaginare visioni rivoluzionarie. Oggi non c’è più nessuno che abbia il coraggio di inventare qualcosa di nuovo (…) Al mondo sono caduti i petali».

Maiuscole, come in Blake
A sua volta, la predilezione della protagonista per l’indagine dell’ordine nascosto degli avvenimenti attraverso gli oroscopi è anch’essa il riflesso di una sensibilità mirata a ribadire spasmodicamente la dipendenza di noi tutti dalla Natura, dal Cosmo e dalle sue Leggi invisibili. Se l’esistenza terrena è una prigione eretta sull’impossibilità di essere diversi da quelli che siamo, si può tuttavia cercare di accedere a un livello più profondo di conoscenza. Da qui il tentativo di Janina di ridisegnare la realtà circostante (evidente per esempio nel suo vezzo di riferirsi agli altri esclusivamente per mezzo dei soprannomi da lei escogitati), ma anche il tono profetico del suo monologo, disseminato di iniziali maiuscole sparse con arbitraria liberalità, come negli scritti del suo amato Blake. Ed è proprio sotto il segno del visionario artista inglese che Tokarczuk mette il romanzo, a partire dal titolo e dalle epigrafi in testa a ogni capitolo. Come il suo conterraneo Czeslaw Milosz aveva osservato nella Terra di Ulro, chiosando Blake: «Il poeta (profeta) fa un buon uso della lingua quando l’Immaginazione gli permette di innalzarsi al di sopra dello stato di Caduta in cui vive il genere umano». Esattamente l’obiettivo cui aspira Tokarczuk nel confezionare con una buona dose di ironia la storia dell’eterodossa Janina.