Che cosa accade ai personaggi dei miti antichi quando dal loro mondo scompaiono le forze divine nelle quali le antiche storie individuavano l’origine delle loro azioni? È questa la domanda che fa da sfondo a La casa dei nomi, l’ultimo affascinante romanzo di Colm Tóibín, nitidamente tradotto per Einaudi da Giovanna Granato.

Tóibín rivisita la celebre storia della vendetta di Clitemestra contro il marito Agamennone, colpevole di aver sacrificato la figlia Ifigenia, e del matricidio che il figlio Oreste compie per ordine di Apollo. Di questa vicenda terribile conosciamo ben sette trattamenti teatrali risalenti al V secolo a.C.: la trilogia di Eschilo (Agamennone, Coefore, Eumenidi), e poi l’Elettra di Sofocle, l’Ifigenia fra i Tauri, l’Oreste e l’Ifigenia in Aulide di Euripide. Per i tragici antichi l’interesse verteva soprattutto sulle azioni dei personaggi del mito e sui problemi etici che esse generano quando vengono a contatto con i nuovi standard morali e giuridici dell’Atene dei loro tempi. Assai minore era lo spazio riservato alla dimensione interiore. Le opere ricordate sopra non si soffermano, se non occasionalmente, sui sentimenti provati da Clitemestra negli anni che precedono la vendetta, né su quelli di Oreste nei lunghi anni dell’esilio.

Proprio questa lacuna offre a Tóibín terreno aperto per la sua costruzione fantastica, che applica alla vicenda i raffinati strumenti di indagine psicologica propri del romanzo moderno. La scelta decisiva è quella di far muovere le sue creature in un mondo in cui gli dèi, ormai sfocati e lontani, non sono più responsabili delle azioni degli uomini. Nessun dio viene nominato, né si parla più dell’ordine di Apollo o delle Erinni che perseguitano il matricida per il sangue versato. Tutte le decisioni sono umane, e proprio per questo più cariche di sofferenza. Il senso del regresso del divino è colto con forza da Clitemestra, rinchiusa in un antro buio mentre fuori sgozzano sua figlia. Nel dolore e nell’umiliazione di quella prigione le appare a un tratto chiaro che non c’è alcun dio che suggerisca ai mortali come ci si debba comportare: ogni decisione d’ora in poi, e prima di tutte quella di uccidere Agamennone, potrà essere soltanto sua. Più avanti Elettra, personaggio che nelle ombre del passato cerca consolazione alla solitudine, spiega a Oreste che «viviamo … in un’epoca in cui gli dèi stanno sbiadendo. Alcuni di noi li vedono ancora, ma non sempre». Anche le sue ragioni per odiare la madre sono tutte umane: il desiderio di vendetta si accompagna al senso di abbandono affettivo da parte di una madre ingombrante, che già la trascurava quando Ifigenia era viva.

Il percorso più innovativo è certamente quello che Tóibín disegna per Oreste. Fatto rapire, come molti altri bambini della città, dalla madre e da Egisto, Oreste trova difesa contro la brutalità dei carcerieri nell’amicizia con un altro prigioniero, il giovane Leandro, che gli propone di fuggire assieme a Mitros, un piccolo la cui salute è provata dalla prigionia. I tre riescono a sfuggire ai loro aguzzini e dopo una lunga fuga trovano rifugio in un luogo lontano, ai margini del consesso civile, una fattoria presso il mare dove vive da sola una vecchia. Quella casa, dove resteranno per anni, è un luogo pervaso di ciò che resta dell’antica presenza divina e dei nomi di tutti coloro che l’avevano abitata (la vecchia si rivela l’unico personaggio del romanzo che sia ancora in grado di raccontare miti). In quel riparo sicuro, i ragazzi crescono aiutandosi a vicenda, fino a quando la morte della donna e quella di Mitros sanciscono la fine dell’adolescenza di Oreste e Leandro.

Per Tóibín, dunque, la Bildung di Oreste non si compie, come nel mito antico, sotto il segno della vendetta. Vittima inconsapevole della violenza della madre, il ragazzo cresce fra timori e interrogativi su cosa sia realmente accaduto a suo padre, e se da una parte sperimenta la dura necessità di uccidere gli inseguitori per sopravvivere, dall’altra vive momenti di grande tenerezza nel rapporto con Leandro, che lo accompagna nella scoperta dell’eros. Il ritorno a casa non nasce dalla pianificazione preventiva del matricidio, e avviene senza bisogno della finzione protettiva che caratterizza le versioni tragiche antiche (Tóibín oblitera senza pentimenti la celebre scena del riconoscimento). Il giovane rientra in famiglia e si trova esposto alla rete di menzogne che la madre gli tesse attorno per portarlo dalla sua parte. Solo col tempo matura in lui la consapevolezza che è lei la sola responsabile di tutto: un percorso doloroso che passa per le rivelazioni di Elettra e per la sconvolgente esperienza della violenza politica perpetrata contro le famiglie di Leandro e di Mitros. Fino all’inevitabile decisione finale.

In questa fase il rapporto di Oreste con Leandro si incrina, perché quest’ultimo prende le distanze dall’amico, troppo vicino alla madre, e lascia la città per diventare il capo di un movimento di rivolta che agisce su montagne lontane. È difficile non cogliere la singolare affinità di questo tratto con un altro celebre ‘seguito’ dell’Orestea, il dramma Pilade di Pier Paolo Pasolini, dove Pilade comanda un gruppo di ribelli e i due amici finiscono con l’essere simboli di concezioni politiche inconciliabili. Quando infine Leandro prende possesso della città, Oreste deve prendere atto che le cose sono cambiate per sempre: gli anziani, con il consenso del vincitore, lo emarginano dalle decisioni, perché l’atto compiuto lo ha segnato irrimediabilmente. Leandro gli chiede solo di prendersi cura di sua sorella Iante, traumatizzata dal massacro familiare cui è scampata, e, come si scopre nelle pagine finali, incinta di uno dei suoi violentatori.

Il rapporto di Tóibín con i modelli antichi si articola in varie forme. Per quanto egli dichiari che il suo racconto non ha una fonte precisa (p. 263), il lettore esperto riconoscerà agevolmente le riprese più evidenti. I dialoghi fra la regina e il marito, fra Ifigenia e Agamennone e fra Achille e Clitemestra (pp. 27-31) ripercorrono le battute degli stessi personaggi nell’Ifigenia in Aulide di Euripide (vv. 1129-45, 1211-1275, 1344-1401). Da Euripide deriva anche il motivo dell’ingannevole proposta di matrimonio tra Achille e Ifigenia con cui Agamennone attira in Aulide le sue vittime, ma è a Eschilo che Tóibín si ispira per la scena raccapricciante del sacrificio di Ifigenia, cui scopriamo che anche Oreste ha assistito. La sventurata giovane muore urlando come un animale, tra l’odore del sangue e delle viscere delle vittime.

Su alcuni dettagli, poi, l’autore opera in modo sottile. Il crudo particolare eschileo del bavaglio che Agamennone fa imporre alla figlia, perché non turbi con maledizioni il rito sacrificale, è proiettato anche su Clitemestra, che viene a sua volta imbavagliata. La carcerazione nell’antro sotterraneo ricorderà a molti lettori l’ultima prigione di Antigone in Sofocle; e anche questo dettaglio si ripropone per Elettra, rinchiusa nelle segrete durante l’assassinio del padre. Su un piano più generale, comunque, Tóibín si muove con piena libertà, introducendo numerosi personaggi nuovi e ristrutturandone radicalmente altri, come Egisto, una sorta di genio del male detenuto per ragioni oscure nel palazzo di Agamennone, delle cui inspiegabili conoscenze su tutto ciò che accade dentro e fuori dalla città Clitemestra si serve cinicamente.

Alla fine di questo bel romanzo dai tratti talora sconvolgenti i personaggi giungono duramente provati, e tuttavia ancora capaci di profonda umanità. Nella pagina conclusiva Oreste e Leandro attendono assieme l’alba finalmente consapevoli che, col tempo, gli orrori compiuti in quella casa svaniranno assieme alla memoria delle persone che vi hanno vissuto, e non perseguiteranno più nessuno.