Therese Belivet ( Rooney Mara) vorrebbe diventare una fotografa e per pagare l’affitto fa la commessa da Frankenberg nel periodo delle vacanze di Natale. È cresciuta in un orfanotrofio e sotto la frangetta scura coltiva fantasie e sogni sul futuro. Un pomeriggio di folla pre-natalizia, davanti al bancone dei giocattoli di Therese appare Carol (Cate Blanchett) alla ricerca di un regalo per la sua bambina. Elegantissima, capelli platino, gli occhi azzurri che la scrutano profondamente tra le due donne, la ragazza timida e l’affascinante signora upper class più grande di lei, scorre subito una tensione palpabile, una danza di sguardi e di erotismo.

Carol, il nuovo film di Todd Haynes che era in concorso al Festival di Cannes, Palma d’oro a Rooney Mara per la migliore attrice- e che la Festa di Roma ha presentato prima della sua uscita nelle nostre sale il prossimo 11 febbraio – tratto dal romanzo di Patricia Highsmith, The Price of Salt, racconta un amor fou lesbico che sfida le convenzioni del tempo, l’America degli anni Cinquanta, i suoi tabù le sue crudeli regole di facciata.

«È una storia d’amore che va oltre la questione dell’orientamento sessuale – dice Todd Haynes – Tutte le più belle storie d’amore hanno bisogno di una repressione, di ostacoli da superare, qualcosa che ci faccia desiderare che i due amanti possano stare insieme». Non è la prima volta che il regista racconta una love story che sfida le «regole» sociali: in Lontano dal paradiso metteva al centro un amore impossibile – perché interrazziale – negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. «In realtà si tratta di lavori molto diversi, in Lontano dal paradiso siamo nella provincia americana patinata e domestica dove la repressione è più evidente. La mia ispirazione per quel film erano stati soprattutto i melodrammi di Douglas Sirk». Carol invece è ambientato in una New York scintillante , e per Haynes il riferimento è piuttosto Breve incontro di David Lean: «Un’altra storia d’amore che ci fa parteggiare per gli amanti, e ci colloca all’interno del loro fragile stato mentale».

Uno stato mentale vissuto in soggettiva, quella di Theresa, come nel romanzo di Highsmith e come anche nei thriller della scrittrice, che secondo l’autore di Carol non sono poi così diversi: «C’è un legame tra la sovraeccitazione di una mente criminale e di chi è innamorato». Anche se nel film di Haynes questo stato è qualcosa in divenire e in continuo cambiamento, non solo per l’evoluzione del personaggio di Therese nel corso della sua «formazione sentimentale», ma anche perché il punto di vista si sposta, specie nel finale sull’oggetto del desiderio: Carol. «È lei che diviene la più fragile, e guarda Therese attraverso un vetro che amplifica il desiderio».

Il gioco di schermi tra le due amanti scorre così lungo tutto il film: «Aiuta a sottolineare l’atto di guardare – spiega Haynes – Quando niente ostacola la vista non ci rendiamo conto di stare ‘vedendo’, del desiderio di vedere, della necessità di capire chi sta guardando chi». Ed è questo un scambio che prende forma anche nella recitazione, specialmente per il personaggio di Cate Blanchett il quale, dice ancora il regista, ha due aspetti: «L’apparenza impeccabile di una donna benestante, privilegiata e di prestigio e il fardello che ciò comporta, la complessità e il dolore dietro la superficie. Per questo Cate mi chiedeva sempre girando una scena di chi fosse il punto di vista: a Therese lei appare perfetta, quando invece il suo sguardo non è in campo è più vulnerabile».

Carol, primo film del regista non scritto da lui – la sceneggiatura è di Phyllis Nagy – è la storia di un amore che si consuma per sottrazione: poche parole, lunghi silenzi, la macchina da presa che non si muove frenetica da un’attrice all’altra e «lascia che l’interprete ‘viva’ nell’inquadratura». Quadri monocromatici sui toni del grigio e del beige, «in cui occasionalmente spunta un colore forte e acceso – dice ancora Haynes – come il rosso della sciarpa e del rossetto di Carol o un’improvvisa esplosione di desiderio».