Tra i punti di forza della Biennale Arte di Venezia è da contare, senza alcun dubbio, l’esercizio intensificato ed espanso, aperto per tutto il periodo dell’esposizione e polo d’aggregazione e d’attrazione di tutto ciò che accade di artistico – e oltre – in Laguna.
Sono, infatti, innumerevoli gli appuntamenti che cercano di conquistarsi «un posto al sole» con il bollino della Biennale, disegnando un sovrappiù sulla sua mappa espositiva, talvolta prosecuzione di una teoria curatoriale, molto più spesso e al contrario efficientamento economico della propria struttura.

QUESTA PREMESSA si fa metodo di visita e di confronto quando si varca la soglia di Ca’ Venier de’ Leoni, sede della Peggy Guggenheim Collection e ci si trova di fronte alla sorprendente antologica dedicata a Mark Tobey, Luce Filante, la prima e più completa mai organizzata in Italia (visitabile fino al 10 settembre) sul pittore delle «scritture bianche», nato nel profondo Wisconsin nel 1890 e morto a Basilea ottantasei anni dopo. Qui, la Collezione rimane fedele alla sua missione: quella di valorizzare gli artisti americani del XX secolo, soprattutto coloro che furono, con alterne vicende, legati all’Espressionismo Astratto.

MOLTO DI QUESTO STUDIO passa anche attraverso revisioni e riposizionamenti all’interno sia del canone locale sia mondiale, nel tentativo di relazionare gli artisti con le correnti e avanguardie artistiche europee che hanno attraversato il continente al di là dell’Oceano Atlantico in fecondi scambi e contraddittori movimenti di mercato, quando si è trattato di sbarcare in un «ritorno al futuro» nel Vecchio Continente.

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CI SONO PASSATI ultimamente Baziotes, Gottlieb e Charles Pollock, il misconosciuto e maggiore dei fratelli di Jackson. E ora tocca a Mark Tobey che, annodato alla sua mostra estiva, riesce a suscitare molti interrogativi che non sospendono la visione della bellezza delle opere, ma tendono a edificare una costruzione intellettuale che, forse, va al di là delle intenzioni dei curatori (imprescindibile in tal prospettiva è l’affidarsi al volume-catalogo di Debra Bricker Balken, editato Skira Rizzoli New York, in collaborazione con Addison Gallery of American Art).
Frettolosamente collocato nell’elenco degli espressionisti astratti, Mark Tobey di quei Pollock&Co – l’elenco è più articolato e va al di là della Scuola di New York – fu, per biografia e intendimenti estetici, più un anticipatore e in seguito un fiancheggiatore, invero un po’ distratto, per come era occupato a viaggiare e a conoscere il mondo. Non più dividendosi tra Chicago e New York e praticando la professione di modista, ma tra l’Europa e il Giappone, sperimentando non solo forme inedite di pittura, ma anche modi di vita quotidiana che sembravano – ancora – anticipare di quarant’anni le scuole e le comuni alternative degli anni ’50 -’60. La frequentazione della Darrigton School fu formativa sia per discenti sia per docenti.

Ma è soprattutto da rilevare l’imprevedibilità degli esiti della sua pittura dagli anni ’50 in poi, quando lo studio delle tecniche pittoriche giapponesi sembrarono fornirgli le idee giuste (un paragone lo si potrebbe fare con l’ampio gesto ideogrammato di Kline). L’impaginazione dell’allestimento veneziano propone come ouverture alcuni paesaggi risalenti ai tardi anni venti che, nella composizione non ancora del tutto astratta e nella bidimensionalità della colorazione, permettono di scovare una relazione inaspettata con i campi lombardi di William Congdon (di ben cinquant’anni dopo). Mentre lo sguardo è posato nel Middle West.

SONO LAMPI, perché subitaneamente comincia la fascinazione, comune, a metà degli anni ’40, della maggior parte dei pittori americani che si daranno all’astrazione, per la zoomorfia picassiana. In Tobey prende forma una vera e propria idolatria per la pittura di Klee e Kandinskij (e l’estrema produzione inorganica quanto ha ancora da collocarsi nella giusta linea d’influenza americana).
Da lì in poi – e si è già nei tardi ’40 – Tobey compie la sua parabola di originalità, l’«east meets west», fortunata formula consumata anche in musica (e chi ricorda più il sitar di Ravi Shankar dialogare con il violino di Yehudi Menuhin), che gli consentirà di esplorare nuovi mondi non più solo contigui all’arte, ma alla religione e alla letteratura. E alla stessa musica, dedicandosi allo studio del pianoforte e del flauto.