Il 31 maggio 1522 è inaugurato, nel coro dei Santi Nazaro e Celso a Brescia dove ancora si conserva, il polittico commissionato nel 1519 a Tiziano dal potente preposto della chiesa, Altobello Averoldi. Collocato sull’altare maggiore con ricorso di clero e popolo «applaudente», aveva già mosso le mire di Alfonso I d’Este. Il duca di Ferrara nel 1520 avrebbe infatti voluto per sé il San Sebastiano, il pannello laterale basso di destra, già concluso e ammirato tanto da far dire ad alcuni che «darla a prete, et ch’el porti a Brixia» sarebbe stato come «ch’el era gettato via». Ma l’Averoldi non è un ecclesiastico qualunque: è vescovo di Pola e legato pontificio a Venezia dove frequenta aristocratici, ambasciatori, letterati, e Brescia non è una provincia sperduta, ma il principale capoluogo della Lombardia veneta. Alfonso I si decide perciò di «non voler far questa ingiuria» mentre Tiziano che allo scambio, per denaro, avrebbe ceduto, proprio ai piedi di quel San Sebastiano tanto lodato, «la megliore pictura, ch’el facesse mai», pone in evidenza la propria firma.
Le novità del maestro cadorino orientano da anni la pittura veneziana e sono già note ai migliori artisti bresciani. Nessuno, nella triade composta da Savoldo, Romanino e Moretto, è preso completamente alla sprovvista di fronte al polittico Averoldi. Tuttavia il peso della dirompente macchina tizianesca, aggiornata sul «far grande» romano e resa drammaticamente potente dalle pose e dai gesti ispirati al Laocoonte, è tale da influenzare il contesto vitale e ricettivo della pittura locale. Il bilancio di questo rapporto, più volte affrontato dalla critica novecentesca, si può rifare ora grazie a una scelta di dipinti, puntualizzazioni e approfondimenti, alla mostra Tiziano e la pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia. Curata da Francesco Frangi, visitabile fino all’1 luglio al Museo di Santa Giulia a Brescia, prevede anche degli itinerari dentro e fuori la città (scaricabili qui: mostratizianobrescia.it): ci sono da mettere in conto almeno le tappe ai Santi Nazaro e Celso, San Giovanni, al Diocesano e alla Tosio Martinengo riaperta dopo anni di lavori.
I ripetuti viaggi veneziani, le capate a Milano e il soggiorno a Padova hanno fissato le attrazioni del giovane Romanino: Giorgione, Dürer, Bramantino e Tiziano. Senza la conoscenza delle opere di quest’ultimo non ci sarebbero le ricche campiture cromatiche tracciate con pennellate sciolte, libere, caratteristiche dell’artista bresciano – insomma, per dirla con Longhi: il «demone del colore mosso, che tende a trasformarsi in macchia, torcendo agli orli le lame cromatiche, sollevandole come riarse». I nervosismi, gli sbiechi anticlassici sono scaldati in una pittura bruciante, satura, come nella tavola di Salò ora in mostra, uno dei capolavori di questa congiuntura: la Madonna e il Bambino sono appoggiati a un trono messo su nel bosco con vecchie assi inchiodate ad alberi piegati da un vento temporalesco; le vesti sono cucite con i tagli di stoffa più preziosi che si possano immaginare, rese con pennellate decise, corpose, grondanti di colore. Siamo tra 1517 e 1518, nel pieno di un fenomeno anticlassico che attraversa la pianura e ha il suo manifesto negli affreschi del duomo di Cremona. Una corrente che coinvolge e stimola Moretto: ne fanno fede qui la paletta di Atlanta che parafrasa più pacatamente, ma con tanta poesia, il ribollente dipinto di Salò, e la Madonna con il Bambino dell’Alana Collection, avvampante di umori romaniniani quanto lotteschi e palmeschi. In che misura Tiziano già pesi, lo si capisce anche dal quadro di Francesco Prata posto in questa stessa sala: l’evoluzione di questo piccolo maestro di provincia è una cartina di tornasole.
Poi, appunto, il polittico Averoldi è montato in Santi Nazaro e Celso. Si entra nella seconda sezione della mostra. Moretto e Romanino sono al lavoro per la cappella del Corpo di Cristo in San Giovanni Evangelista e reagiscono subito alle sollecitazioni: i gesti dei loro personaggi si ampliano tanto da sfondare le cornici, ma le preoccupazioni antiquarie di Tiziano sono come impastate di valori luminosi e da un incipiente naturalismo. Guardano entrambi tanto alle radici foppesche della loro tradizione, quanto agli esperimenti luministici di Savoldo e al vigore formale del Pordenone. In mostra le reazioni dei due artisti al polittico si colgono bene nell’accostamento delle Resurrezioni realizzate a metà degli anni venti: Moretto affronta il tema in una pala per San Clemente a Brescia, Romanino per San Giorgio a Capriolo. Entrambi i quadri sono condotti con un amalgama densissimo e riprendono gli squarci di luce che spaccano il cielo della Resurrezione di Tiziano, ma le due immagini del Risorto sono condotte con linguaggi differenti. Solenne e pacato Moretto, sbilenco, scalcagnato e disturbante Romanino. Savoldo invece, da Venezia dove abita in pianta stabile, mantiene con il polittico bresciano un rapporto limitato, assorbendone, come un ricordo, le sottigliezze atmosferiche.
I capitoli successivi della mostra sono distesi in un lungo corridoio dove sono esposte opere di dimensioni ridotte, non destinate agli altari ma a luoghi più intimi, privati. Dimostrano come gli scambi tra Brescia e la laguna non siano avvenuti solo sul piano stilistico, ma anche tipologico. C’è il bellissimo San Gerolamo di Sibiu che fotografa il momento in cui Lotto, da Bergamo, trasfigura la maniera romana di Raffaello e Michelangelo con i suoi interessi eccentrici e le suggestioni tedesche, riattivando le attrazioni danubiane di Romanino; ci sono alcune sacre conversazioni orizzontali a mezze figure, sull’esempio di quelle introdotte a Venezia da Bellini, e alcuni capolavori della ritrattistica cinquecentesca. Arricchita da tutte queste interferenze, la scuola pittorica bresciana trova i suoi caratteri più precipui nella definizione della realtà, nell’uso della luce come mezzo per descrivere il visibile, senza nessuna retorica, senza idealizzazione, ma con l’intensità sentimentale che può esprimere la natura. Si conferma, insomma, la definizione longhiana di «precaravaggismo», sostando con lo sguardo sulla tovaglia bianca, sui piatti, sulle pere, sulle ombre della Cena in casa di Simone di Moretto, da Santa Maria in Calchera.
Penultima sezione: Savoldo, Moretto e Romanino sono morti; Tiziano è ancora in attività. Il contesto è completamente cambiato. Nella marea montante del manierismo Brescia difetta: manca un vero e proprio ricambio generazionale e le decorazioni per la sala del Collegio dei Giudici della Loggia, l’edificio che ospita i rappresentanti del potere cittadino, sono affidate ai cremonesi fratelli Campi, mentre il rinnovamento architettonico passa al vaglio di Palladio e Jacopo Sansovino. Le tele per il soffitto della sala delle Assemblee, l’ambiente più prestigioso, sono commissionate a Tiziano nel 1564: approdano in Loggia, dopo quattro anni di ritardi e polemiche, tra le architetture dipinte dal bresciano Cristoforo Rosa con la collaborazione del fratello Stefano. È la seconda impresa di Tiziano nella città lombarda. Vasari vede la «magnifica sala» della Loggia non ancora completata e i «tre quadri grandi» in lavorazione nello studio veneziano del cadorino durante la pazzesca tornata di viaggi, utile agli aggiornamenti delle Vite, nella primavera del 1566. È una delle poche testimonianze che riguardano la decorazione del salone perduta, nel gennaio 1575, a causa di un incendio.
Dopo aver rievocato questa vicenda, la mostra non sosta sul tramonto dell’esausta tradizione pittorica locale, ma chiude con altre presenze venete come il Martirio di Sant’Afra di Veronese e bottega per la chiesa omonima, a conferma che lo sguardo dalla committenza bresciana resta (in buona parte) puntato verso est anche dopo la morte di Tiziano.