Padre Tito Amodei, 1926-2018

 

Una recente mostra (con convegno), proposta a Roma, nel Complesso della Scala Santa, dalla Fondazione dedicata a Tito Amodei (Colli a Volturno 1926 – Roma 2018), ha riacceso l’attenzione sullo scultore-religioso molisano, tra i più attenti al messaggio del Concilio Vaticano II.
Due legni del 1979, Sole caduto sulla piazza e Uccello in cima, dove l’oggetto insolito, l’elemento «scena», estrapolati dalla campagna del suo paese, vengono ricomposti con plastica musicalità nella leggera geometria di forme librate nell’aria, riflesse nell’Abside del 1989 o in Spazio-forma del 2000-’05, chiariscono le origini e la formazione di Tito, orientato a coniugare la vocazione sacerdotale (fu padre passionista) alle più avanzate esplorazioni artistiche del ventesimo secolo.
La ricerca di Tito, indotta sempre per ragioni di linguaggio espressivo, è la stessa compiuta negli anni sessanta, quando non si perde nei franchi luminismi di Rodin o di Maillol ed esplora il supporto di una invenzione formale sostenuta da una prontezza di segno che richiama da un lato gli espressionisti e dall’altra i neoprimitivisti alla Barlach, ma con un senso psicologico che attanaglia le forme domestiche con un contenuto di perfetto arcaismo.
Padre Tito non vuole cadere, proprio quando è mosso da temi sacri, nella tragica imponenza e neppure nell’evasione dalle civiltà che l’hanno nutrito fino a quel momento. Si appoggia, perciò, a Martini e a Marino, vi infiltra ondulazioni che dal Boccioni delle ‘compenetrazioni di piani’ e dal Melli dei ‘volumi negativi’ arrivano a Wotruba, senza mai farsi irretire dal monumento commemorativo.
Il bisogno di un racconto figurale è sempre in equilibrio con le necessità plastiche tutte linea e movimento. Lo stesso disegno si iscrive entro un piano a rilievo, cerca un asse intorno al quale organizzare l’immagine che dominerà lo spazio, adoperando la forza che si incanala nelle strutture delle sue invenzioni plastiche coniugando accenti inediti di candore e sentimento. Contemporaneamente, in scritti teorici, stabilisce metodi e criteri del fare arte, non solo sacra, così da trasmettere con precisione cosa significhi per lui disegnare o scolpire, quanto la matematica sia componente importante di una forma mentis portata verso i teoremi prospettici.
Ciò spiega perché la maggiore aspirazione di Tito sia quella di stabilire la continuità del volume riducendo all’estremo le forme, tenendo sempre in vista, tuttavia, la massa compatta, con i contorni arrotondati, le membrature naturali, quasi dovesse fermare la sua attenzione sulle possibilità di una implicazione lirica degli oggetti della quotidianità contadina, riportare in vita gli utensili di una razza estinta di giganti, le impronte archetipe di una espressione rituale, cara anche a Pino Pascali.
La tensione alla sobrietà e al calcolo delle figure geometriche piane in un primo tempo, dei solidi poi, il marcato verticalismo, si sviluppano ampiamente lungo tutti gli anni ottanta, avendo alle spalle la lezione di Piero della Francesca che stimola di continuo l’impegno esemplificativo e didattico aprendo ampi squarci d’indagine nella geometria proiettiva e descrittiva (Tabernacolo per la Cappella di Santa Marta in Vaticano, 1996).
Tito fa di più, senza affrontare dichiarazioni di estetica: istintivamente cerca di identificare la pittura di un tempo con la scultura resa dimostrazione «de superficie et de corpi degradati e accresciuti nel termine». Rompe la compattezza della massa, alza absidi, allarga paesaggi, sommuove pavimenti, scomoda anche Euclide per ritrovarsi nel cilindro di Piero, ovvero nel corpo della struttura di cui saggia sperimentalmente la duttilità, l’estensione e la riflessione.
Un universo inverosimile di forme, governate dalla ferrea legge del numero, si staglia come una illusione ottica «more geometrico demonstrata» in un luogo mentale dove un gioco sottile di segni intersecati, di volumi aperti e chiusi, crea una voluta ambiguità. Che non è l’inganno prospettico di Piero recuperato da Tito visivamente, in quanto lontanissimo dalla simbologia medioevale, ma solo per ragioni di prefigurazioni della forma. Infatti, la forma de La grande scultura (1986-’87), che ricorda una colonna, o di Paesaggio con il sole (1989), che amplifica l’idea di un ostensorio, o de La chioma di Narciso (1990), che suggerisce una pisside, o di Seme della forma (1992-’94), che ingrandisce l’uovo della Pala di Brera, sfrutta la foggia per caratterizzare ed evidenziare l’analogia, maggiormente distinguibile nella specularità dell’ombra segnalata nelle fotografie degli allestimenti realizzati da Tito in occasione delle mostre nel Palazzo dei Papi di Viterbo o nella Sala De Gasperi del Vittoriano di Roma.
Né è da trascurare, nella scultura, la disposizione dell’immagine, l’ordine della successione ritmica degli elementi sistemati lungo un asse verticale, coordinatore dello schema compositivo, e un asse orizzontale orientato prospetticamente e quindi decisionale per la definizione delle dimensioni della scultura stessa.
L’ossatura geometrica dell’opera, dunque, è palese, soprattutto se la si raffronta con il disegno che è sempre una ulteriore riflessione sulla forma prima di affrontare il legno, scelto quale elemento primario nella costante rappresentazione di una dimensione dell’Assoluto che non sia a tutti i costi inserita nella categoria dell’arte sacra. Anche qui la presenza di Piero ha dato buoni frutti, restituiti nell’aria mistica che circonda in ogni momento la scultura, solo che il modello, a distanza di secoli, è connotato dalla presenza di migliaia di descrizioni che hanno riservato l’atemporalità ai soli mezzi prospettici.
Uno sguardo alla disposizione della visione unitaria che padre Tito prepara, mette subito in chiaro quanto lo incanti la «bella geometria» di de Chirico che: volendo definire l’immagine, espande l’oggetto, lo riduce in misura costante, lo impone otticamente nella composizione d’assieme provocata da piani orizzontali e verticali improvvisamente affidati a un colore irreale e «simbolico» di grande sonorità.
Tito aggiorna il linguaggio tenendo conto del montaggio della forma, della molteplicità di direzioni nello spazio, in modo da creare una continuità dei vuoti e dei pieni, entrambi intesi come parti positive di una struttura plastica. È lampante, allora, che non un movimento si perde nelle vibrazioni de La grande parete del 1984, nella improvvisa fissità degli elementi a canna d’organo di una installazione quale quella del 1989 a Fossato di Vico. Il blocco li lega tutti insieme. Tanto da predisporre un campionario di misure fuori dal consueto che, nella fase intermedia, preludono alle fusioni in bronzo e al successivo impiego dell’alluminio, della terracotta e del rame, del ferro smaltato e, negli ultimi anni, del mosaico.
Ogni taglio, ogni fenditura, la stessa saldatura a incastro della scultura che aggredisce lo spazio per occuparlo o per accertarne la sottomissione, segnala il proprio peso materiale nell’aria, allude ad archetipi misteriosi, ricerca un equilibrio, opera un traslato per l’idea dei rapporti plastici e la loro abilità di sottrarsi, gradatamente, a qualsiasi raffigurazione. Il fine ultimo è quello di manifestarsi come pura immagine. Perciò la forma viene inserita nello spazio in modo che essa, offrendo i profili interni ai profili esterni, rinunci a qualunque aspetto statico e frontale e acquisisca una visuale mobilità, tanto da permettere all’aria, alla luce e allo stesso spettatore di passarvi liberamente. La pesantezza, la gravità delle curve elasticamente vibranti, è consapevole dell’ampiezza narrativa ma anche delle modificazioni o aggiustamenti che l’accompagnano, proprio come accade nelle grandi costruzioni religiose del passato. L’accuratezza artigiana e la vicinanza all’arte popolare si concretizzano in un ordine armonico che nel nuovo sistema di continuità figurale, nell’impulso ad approntare uno spettacolo, ritrova la vitalità necessaria per piegare la materia e continuare a intrecciare il fluire del quotidiano con il disegno divino.