In Australia, Tim Winton, prolifico romanziere e attivo ambientalista, è una sorta di monumento nazionale vivente: nominato «Living Treasure» dal National Trust, insignito di importanti onorificenze per il servizio reso alla letteratura e alla comunità, ha raccontato il proprio Western in tutti i dettagli, dalle spiagge assolate che facevano da sfondo all’opera prima,  An Open Swimmer, passando per il cupo bush (Nel buio dell’inverno), il firmamento inalterato dalle sagome di palazzi (Quell’occhio, il cielo) lo sconfinamento del deserto (La svolta), i piccoli villaggi di pescatori (Dirt music) fino alle trasformazioni di Perth, l’unica grande città dell’enorme regione, smaniosa di farsi metropoli, anche a danno della propria fisionomia originaria (Cloudstreet, Il nido). Forse perché raramente rilascia interviste e non ama allontanarsi dal villaggio di seicento anime in cui vive, o forse perché la sua narrativa non concede nulla all’esotismo della nuova frontiera, Winton non è finora riuscito a raggiungere una popolarità internazionale.

All’uscita del suo ultimo romanzo, Il capanno del pastore (traduzione Stefano Tummolini, Fazi Editore, pp. 267, € 18,50) i critici americani hanno sprecato paragoni con Cormac McCarthy, nel tentativo di rendere il libro più appetibile fuori dall’orizzonte down under, e finendo per passare in ultimo piano l’australianità di Winton, erede di una narrativa che nasce raccontando storie di uomini obbligati a far fronte a una natura inospitale e a superare la durezza, a volte inaudita, della vita nel bush. È a questa tradizione che Winton si richiama mentre racconta la storia di Jaxie Clackton, un adolescente di quindici anni orfano di madre, quotidianamente pestato dal padre, macellaio alcolizzato e manesco, terrore degli abitanti di uno sperduto borgo del Western Australia. In seguito alla sua morte, accidentale e violenta, la cui colpa la comunità locale farebbe di certo ricadere sul ragazzo, egli fugge a piedi verso il paese della cugina, con cui ha una contrastata storia d’amore, portando con sé poche provviste, un binocolo e un fucile. Punta ai laghi salati del nord, attraversando a piedi circa tremila chilometri quadrati di deserto, con poca o niente acqua e la prospettiva di dover uccidere, scuoiare e arrostire wallaby e canguri su un fuoco di fortuna.

Sarebbe il tipico canovaccio di una storia di sopravvivenza, se Winton non avesse scelto di far raccontare le proprie avventure dallo stesso Jaxie: adolescente a rischio, attaccabrighe, pieno di rabbia, ma dotato di dolcissimi ricordi della ragazza che ama e della madre morta dopo una vita di maltrattamenti, il ragazzo si rivolge direttamente a chi legge in un linguaggio sboccato, tanto volgare quanto brillante, fitto di espressioni idiomatiche australiane,  che di certo non deve essere stato facile rendere in italiano per il bravo traduttore.

Autore anche di diversi romanzi per ragazzi, Tim Winton si era già servito di un narratore bambino per raccontare una vicenda tutt’altro che infantile: in Quest’occhio il cielo, infatti, con tutta la leggerezza dei suoi dieci anni, il protagonista narra le conseguenze del tragico incidente che ha sconvolto il destino della sua famiglia.

Qui, nel Capanno del pastore, se la prima parte può venire scambiata per un’anomala coming of age novel (nella voce di Jaxie si colgono echi del catcher di Salinger, e la sua fuga, ancorché tragica, ha più di un punto in comune con il vagare di Holden Caufield nel Central Park notturno), nella seconda parte, il suo incontro con Fintan McGills, un vecchio prete irlandese che, allontanato dalla Chiesa, vive da eremita nel profondo del bush, appare come la atipica rivisitazione di un’altra ricorrenza tematica nella narrativa australiana classica: la mateship, ovvero il rapporto di amicizia e collaborazione tra uomini per affrontare insieme i rischi e i pericoli di una natura inospitale.

Inizialmente sospettosi l’uno dell’altro, Jaxie e Fintan arrivano a stabilire un rapporto di fiducia quando l’anziano sacerdote cede il suo coltello al ragazzo. Mentre il ritmo della narrazione si fa sempre più incalzante, si crea tra i due uno strano legame, fitto di misteri che non sono destinati a chiarirsi, ma a cui chi legge può cercare soluzione negli enigmatici monologhi del ciarliero Fintan, abituato a parlare da solo, ma tutt’altro che incline a svelare troppo di sé. «In qualche modo dovevamo fidarci l’uno dell’altro», considera Jaxie, «così gli ho detto che non pensavo fosse un pedofilo, anche se in fondo non ne ero sicurissimo. E lui ha detto che ci metteva la mano sul fuoco sul fatto che non ero un assassino, ma immagino che neanche lui fosse così convinto. E in verità, mi andava bene che restasse col dubbio».

A differenza dei bushmen protagonisti delle storie ottocentesche, uomini forti alleati per piegare una natura selvaggia al proprio volere, Jaxie e Fintan sono due creature fragili che nel bush trovano rifugio, incarnazioni ultime di un doppio ruolo caro alla tradizione australiana: quello del loserbattler, «colui che alla fine giace sconfitto nella polvere – ha scritto Peter Carey, il più famoso romanziere australiano contemporaneo – ma che ha saputo vendere cara la pelle».