Tim-Telecom, il ruolo dello Stato nell’economia post-elettorale
Può apparire esagerato affermare che le larghe intese si fanno solo nella finanza, mentre naufragano nella politica dopo l’esito del voto del 4 marzo. Ma di certo ci si va […]
Può apparire esagerato affermare che le larghe intese si fanno solo nella finanza, mentre naufragano nella politica dopo l’esito del voto del 4 marzo. Ma di certo ci si va […]
Può apparire esagerato affermare che le larghe intese si fanno solo nella finanza, mentre naufragano nella politica dopo l’esito del voto del 4 marzo. Ma di certo ci si va vicino, se si guarda all’intricata vicenda Telecom.
Mentre Renzi e il suo cerchio magico sognano operazioni politiche alla Macron, nel senso di fare nascere dalle macerie del Pd l’araba fenice di una «En Marche» all’italiana, altrove la francofonia appare meno gradita.
Contro Vivendi e lo spregiudicato Vincent Bollorè, sembra stringersi una sorta di santa alleanza, o di mostruoso connubio, a seconda dei punti di vista, tra il governo uscente (nel quale spicca l’attivismo di Carlo Calenda, mentre Padoan coltiva dubbi), i Cinquestelle e un ringalluzzito Silvio Berlusconi.
Quest’ultimo ha un conto aperto con la società francese da quando i transalpini hanno provocato il crollo dei titoli Mediaset, tirandosi indietro dall’acquisto della traballante pay-tv Premium, per poterli rastrellare subito dopo a un prezzo di favore. Conto che non era evidentemente concluso con l’accordo fra il Biscione e Sky, che già poteva essere letto anche in questa chiave.
Vivendi era entrata da tempo nel mirino del bradipo delle agenzie italiane, l’Agcom, il garante per le comunicazioni, con l’accusa di violazione delle norme anti-concentrazione per la contemporanea presenza del gruppo francese in Telecom (al 23, 94%) e in Mediaset (al 28,8%).
Al contempo si delinea un’altra curiosa intesa fra la rapace logica iperliberista, tipica degli hedge fund, quale è Elliot (lo stesso che cerca di salvare il Milan dal disastro finanziario) e un certo statalismo di ritorno, rappresentato dal ‘presidio’ che il Governo intende costruire, per arginare Vivendi, tramite l’acquisto sul mercato di una quota fino al 5% di Tim da parte della Cassa depositi e prestiti.
Elliot e Cdp dovrebbero così agire insieme nell’assemblea del 24 aprile dove forse si deciderà la sostituzione di sei consiglieri di nomina francese con altrettanti non legati a Vivendi.
Ma la cosa non si fermerebbe qui, perché si vorrebbe, con il beneplacito dello Stato e del mercato, spingere Telecom a una fusione con Open Fiber, la controllata di Enel e della stessa Cdp, operante nel campo della fibra ottica.
Una società che invece Amos Genish – il manager israeliano che Bollorè aveva spedito a Roma a guidare Telecom nello scorso luglio – considera un nano, quindi strutturalmente inadatta alle nozze con il gigante Telecom.
Solo due mesi fa Vivendi, socio di riferimento di Telecom Italia e di Mediaset, presentava orgogliosa i propri numeri, dimostrando come i titoli del gruppo guadagnavano terreno e gli utili raggiungevano 1,2 miliardi di euro.
Tutto questo faceva dire con ottimismo ad Arnaud de Puyfontaine, numero uno del gruppo transalpino, di puntare a creare un campione europeo nel settore dei media e della comunicazione, scommettendo sugli spazi da conquistare a danno di americani e asiatici. Ma tale strategia avrebbe dovuto rimanere saldamente in mano francese. Da qui lo scontro con le esigenze italiane. Si ripete con altri protagonisti e in altri settori lo stesso contrasto che si è evidenziato nella cantieristica navale.
Da qui il possibile ruolo affidato alla Cdp.
Forse è questo che intendeva il consigliere renziano Andrea Guerra quando, in occasione del forzato cambio della guardia tra Bassanini e Costamagna alla Presidenza della Cdp, auspicava un ruolo della società più «proattivo ed incisivo».
Certo che ora la rottamazione messa in atto a suo tempo da Renzi può tornare comoda anche ad altri.
Nello stesso tempo un tale ruolo della Cdp può rientrare in una visione di tipo ordoliberista, dove la mano invisibile del mercato viene fermamente guidata da quella dello Stato.
Il che permette ai grillini di mantenere una comoda ambiguità nelle politiche economiche e di rivestirle del manto della difesa dell’industria strategica nazionale. Mentre Berlusconi non ha bisogno di tutto questo apparato ideologico e punta dritto alla salvaguardia dei suoi interessi, ben contento che tornino ad essere scambiati per quelli nazionali.
Del resto la storia della Telecom non è nuova a queste ibridazioni.
Vent’anni fa Prodi e Ciampi usarono la definizione di “public company” per privatizzare la Telecom attraverso l’azionariato diffuso. Ne uscì un pasticcio che non resse.
Poi, dopo il passaggio intermedio di Guido Rossi, apparve il nuovo capitano di ventura Roberto Colannino, sostenuto da D’Alema, che con il meccanismo dell’Opa liquidò l’azionariato diffuso, concentrando il 50% nell’Olivetti. Da lì un seguirsi di sofferenze.
Allora si poteva trarre la morale che la finanza non poteva farcela senza la politica. Ora è piuttosto il contrario, avendo la politica, o la crisalide che ne resta, a tal punto incorporato le logiche e le modalità della finanza.
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