Nata nel 1985 in Ohio, dove vive e dove sono ambientati i suoi primi tre romanzi, Tiffany McDaniel si è progressivamente imposta come una delle voci più importanti e nuove della narrativa americana. Il suo libro d’esordio, L’estate che sciolse ogni cosa, che raccontava l’irruzione del diavolo in persona, nelle vesti di un ragazzino tredicenne con la pelle nera e le iridi verdi come foglie, in una cittadina dell’Ohio, aveva già messo in evidenza l’originalità di un orientamento narrativo nel quale convergono la grande tradizione del gotico, da Poe e Hawthorne fino a Lovecraft, il grottesco sudista di Carson McCullers e di Flannery O’Connor e un’attenzione al mondo dell’adolescenza che ricorda Il buio oltre la siepe di Harper Lee, ma anche capolavori contemporanei come Il Corpo di Stephen King o In fondo alla palude di Joe Lansdale.

A quel folgorante primo romanzo, pubblicato in Italia – come tutta l’opera di McDaniel – da Atlantide, ne sono seguiti altri due, Il caos da cui veniamo e Sul lato selvaggio, nei quali McDaniel ha progressivamente consolidato la propria cifra narrativa, fondata sull’alternanza e la sovrapposizione tra un realismo brutale fin quasi alla ferocia, una vena fantastica che corteggia a tratti la fiaba e l’archetipo e una serie di deformazioni spazio-temporali che impongono al lettore, più che una sospensione dell’incredulità, l’abbandono progressivo delle categorie entro le quali si tende a incardinare ogni narrazione. L’eclisse di Laken Cottle (traduzione intensa e partecipe di Clara Nubile, pp. 294, e 18,50) che esce in anteprima mondiale com’era già accaduto per Il caos da cui veniamo e per la raccolta di poesie Queste voci mi battono viva, sembra rappresentare un ulteriore passo verso il fantastico, con coloriture fantascientifiche e distopiche, ma è costruito su un gioco di alternanze non dissimile da quello che aveva caratterizzato le opere precedenti.

Nessuna spiegazione plausibile
Questo l’incipit: «È arrivato. È emerso dal punto più meridionale della terra. È nato dal mistero e dalla meraviglia, così come sono nati i cieli stellati e il nostro mondo. Questo strano bambino delle tenebre cresce in fretta: dilaga dal Polo Sud come acqua versata in una caraffa già piena, tracima dai bordi». Il bambino delle tenebre altro non è che una misteriosa eclisse, che prende forma nell’Antartide e si allarga progressivamente su tutto il pianeta, divorando i continenti, i grandi monumenti della storia umana non meno delle esistenze individuali. Nessuno ne conosce l’origine e la ragione, e nessuna spiegazione appare del tutto plausibile.

Mentre una serie di capitoli brevi analizza gli effetti progressivi del «grande buio», seguendone l’espansione verso nord, il corpo centrale del romanzo si concentra sulle vicende del protagonista, Laken Cottle, che vaga in un mondo dalle coordinate geografiche sempre più incerte con l’intento di raggiungere New York per ricongiungersi alla moglie, Pearl, e alla figlia, Ruby.

Alle peregrinazioni di Laken si accompagnano i flashback sul suo passato: la scomparsa della madre, Heaven Pearl, che lo ha abbandonato all’età di cinque anni dopo avergli marchiato un orecchio con una stella; la morte del padre orologiaio, Norman, colpito alla testa da una bottiglia mentre pescava insieme a Laken sulle rive del fiume Sole; il periodo trascorso in casa della stravagante zia cieca, Ireland, per poi finire prigioniero nella fattoria di Gordonard Redfern, dove Laken è costretto a raccogliere pesche di notte e a dormire di giorno nel rimorchio di un camion insieme a una banda di ragazzini che condividono la sua stessa sorte.

Se in una narrazione di tipo tradizionale sarebbe legittimo attendersi che le pagine sul Grande Buio siano dominate da un regime fantastico e speculativo e quelle su Laken Cottle da una dimensione realistica, McDaniel disattende deliberatamente ogni aspettativa. L’irruzione dell’eclisse e la sua veloce risalita verso il nord del pianeta viene raccontata attraverso una serie di vignette come questa, ambientata a Casablanca, «dove due vecchi se ne stanno seduti sulle cassette capovolte di pesche, varietà redfern; ascoltando le ultime notizie sul buio da una vecchia radio appollaiata su un barile di whisky. Mentre il buio si manifesta, gli uomini bevono tranquilli il loro tè verde gunpowder con le foglie di menta da due tazze d’argento che sembrano piccole campane a rovescio. Il più anziano dei due sorride guardando il buio sempre più incombente. “Sembra una processione”, commenta. “Una processione di vedove vestite di pizzo nero. Piuttosto bello, devo ammettere”».

Il contrario accade per le vicende personali di Laken Cottle, nelle quali ogni personaggio, luogo o oggetto è avvolto in una dimensione fantastica che sfida le regole della logica e dello spazio-tempo e che appare pervasa da elementi mitici, fiabeschi, archetipici. A mero titolo di esempio, basti la descrizione della zia Ireland: «I capelli lisci, color argento, erano legati in una treccia alla francese, tenuta da un fermaglio a forma di mazzo di spighe. Gli orecchini di madreperla erano due ventagli aperti, su cui erano dipinte scene pastorali e arcaiche. Al collo portava una collana d’argento con un ciondolo che in realtà era un bocchino a forma di serpente, anch’esso d’argento; le squame erano pietre preziose di diverso genere, e al posto degli occhi c’erano dei rubini. Sulla pancia liscia del serpente era inciso un vecchio proverbio della tribù degli Hopi: Chi racconta le storie governa il mondo.»

Dai miti ai modelli letterari
È su questo proverbio che si gioca la vera partita del romanzo. Non è attraverso le sue azioni che Laken Cottle potrà ritrovare Pearl e Ruby, tornare a New York dalle terre desolate in cui si muove senza apparente costrutto, sfuggire al Grande Buio e forse arrestarne l’avanzata; l’unica strada è quella del racconto, della reinvenzione dei fatti per trovare una possibile via di salvezza dalle tenebre. Del resto, Laken è uno scrittore. Questo e poco altro sappiamo di lui, e della vita che ha condotto dopo gli anni dell’infanzia. E come scrittore raccoglie, rielabora, reinventa tutte le possibili forme di racconto americano: dai miti di fondazione degli Hopi e dei Piedi Neri ai grandi modelli letterari sui quali McDaniel ha costruito le fondamenta della sua ricerca. Raccoglie frammenti con i quali, non diversamente dall’Eliot della Terra desolata, puntellare le proprie rovine.

Così si racconta lo stesso Laken al vecchio Israel, suo vicino di posto durante un misterioso viaggio aereo: «Quando avevo otto anni decisi cosa avrei fatto per il resto della mia vita: scrivere. Ma non avevo lo strumento giusto per farlo. Allora presi la vanga di mio padre e me ne andai in giro per il mondo a dissotterrare gli scheletri degli scrittori. Scelsi cinque scrittori per prendere da loro cinque cose in particolare. L’indice di Shakespare, così avrei sempre avuto un po’ di arguzia. Il pollice di Poe, perché volevo imparare come si tiene un badile per seppellire i miei cadaveri. L’anulare di Mary Shelley, perché sposò divinamente le sue parole alla memoria. Il mignolo di Emily Dickinson per un briciolo di poesia, e il medio di Shirley Jackson per avere la giusta dose di veleno da aggiungere ai miei castelli e alle mie tazze.»