Tibur distava venti miglia dal Senato: andata e ritorno erano possibili in un giorno, se si disponeva di una carrozza. L’area era ricca d’acqua. Oltre all’Aniene, la attraversavano quattro acquedotti provenienti da Subiaco e diretti alla capitale.

NON SEMPRE ne uscivano indenni: Plinio il Vecchio e Frontino lamentano la frequenza con la quale facoltosi possidenti vi si allacciavano abusivamente, mettendo in difficoltà idrica Roma. Le strade erano costeggiate da olivi, già promossi da elementi naturali a beni di produzione industriale, essendo ampiamente usati per rifornire le lucerne.
Al paesaggio, che pur tuttavia ricordava la spiritualità bucolica della Grecia, veniva comunemente riconosciuto un valore allegorico, alimentato dall’afflato trascendentale emanato da boschi e cascate. Gli artisti li avrebbero sublimati anche in epoca moderna. Lo rivelano, nell’allestimento della mostra Le grandi ville romane del territorio tiburtino presso il Museo della Città di Tivoli (visitabile fino a dicembre) le testimonianze dei viaggiatori del Gran Tour, le ventotto litografie di Giovanni Battista Piranesi, gli acquerelli di Ettore Roesler Franz. Curata da Maria Antonietta Tomei, l’esposizione è dedicata alla memoria dell’archeologo Giuseppe Pucci, collaboratore del manifesto che ha partecipato alla sua genesi offrendo un originale racconto sull’eredità culturale di Villa Adriana.
La rassegna, a ingresso gratuito, scava nell’origine di questa mitologia paesaggistica, risalendo al I secolo a. C. L’auspicio è che il Comune possa rilanciarla a beneficio della comunità, favorendo la rinascita di tre sentieri pedonali e ciclabili nelle campagne di Tivoli. Il percorso Piranesi, la via di Pomata e quella di San Marco, collegando Villa d’Este con Villa Adriana, meglio permetterebbero al visitatore di dialogare con il genius loci custodito dalle ville disseminate lungo i tracciati. Se ne contano centoundici. Non brillavano per modestia: in una sola stanza di quella del cesaricida Cassio, nel Settecento, furono scoperti l’Apollo citaredo e le sette muse conservate ai Musei Vaticani.

UNA VILLA IN CITTÀ la possedeva anche Bruto, suo fratello di pugnale. E Orazio, Catullo, Properzio, di certo in grado di bearsi della poesia campestre. Quindi Quintilio Varo, il generale sconfitto da Arminio a Teutoburgo per la disperazione del primo imperatore, e Mecenate, che al contrario diede a Augusto durature soddisfazioni. La più bella, proprietà di Manlio Vopisco, fu costruita in epoca augustea nel romantico baratro in seguito occupato da Villa Gregoriana.
Un fondo ben esposto e di media grandezza poteva costare fino a 500 mila sesterzi prima della parentesi gloriosa regalata da Adriano, figuriamoci quando questi volle sugli stessi colli una reggia concepita per riassumere il mondo, riproducendo per puro piacere ogni meraviglia ammirata in occasione dei tanti viaggi. In vita tutti i proprietari delle ville tiburtine trassero giovamento dal trasferimento sul posto della corte imperiale, ma il prezzo da pagare all’eternità fu per loro caro: l’oblio, sotto la scure di un paragone insostenibile.
Tutte, tranne quella di Adriano, sono infatti ancora da scavare, su pendici collinari digradanti verso la periferia orientale di Roma. A marcarle dall’alto, su Colle Ripoli e Monte Sant’Angelo in Arcese, sono ulivi troppo a lungo simili a cipressi di vedetta sui cimiteri. Eppure la loro centralità per la storia dell’arte appare indiscutibile se pensiamo alle continue visite di Raffaello e discepoli, che esplorando i dintorni di Villa Adriana hanno definito i canoni formali del Rinascimento teorizzando un’idea elitaria di classicismo legata al culto dell’otium letterario.

TRA I REPERTI ESPOSTI al Museo della Città spiccano intonaci dipinti di prima età imperiale, esemplificativi della ricchezza iconografica delle residenze aristocratiche, decorate con motivi vegetali, teste di felino, gorgoni, ghirlande, e un busto in marmo bianco di Settimio Severo, recuperato nel 2018 dalla Guardia di Finanza e proveniente da scavi clandestini nell’adiacente territorio di Guidonia Montecelio.
Interessante anche il catalogo, con uno studio di Francesca Boldrighini sulla diaspora delle sculture saccheggiate da Villa Adriana, e un saggio di Valentina Porcheddu che esamina un passo della Historia Augusta nel quale si narra del destino di Zenobia, l’eroina di Palmira, cui Aureliano avrebbe concesso di vivere gli ultimi anni «come una matrona» presso un latifondo tiburtino.