Attrazione e ambiguità: c’è anche questo negli scatti di Seduction of Photography, il libro d’artista a tiratura limitata che Toni Thorimbert (Losanna 1957) ha realizzato nel 2017, punto di partenza per la mostra allestita nella Sala Allende di Palazzo Martuzzi a Savignano sul Rubicone, cuore della 28ma edizione del festival fotografico SI FEST (fino al 29 settembre) che con il titolo Seduzioni. Fascinazione e mistero vede il ritorno di Denis Curti alla direzione artistica. Un lavoro che il fotografo, noto negli anni ’80 per le collaborazioni con Max, Sette e Amica (e nel decennio successivo con testate come Brutus, Details, Mademoiselle e Wallpaper) ha iniziato nel 2012 con l’impiego di due macchine fotografiche che scattano all’unisono: quella impugnata da lui e un’altra fissata sul cavalletto azionata con un telecomando. Il risultato è una circolarità di sguardi che coinvolge soggetto-fotografo e osservatore in cui l’atto seduttivo è sancito dalla fotografia.

In Seduction of Photography gli atti di seduzione non riguardano tanto le sei donne che lei ha fotografato in tempi diversi, quanto la fotografia in sé che definisce l’atto più seduttivo di cui disponiamo…

Forse è un’esagerazione, anzi lo è sicuramente! (sorride) Il libro mi ha portato a questa conclusione perché il lavoro, che di fatto è molto concettuale, s’interroga sull’atto della creazione, del vedere e guardare e a quel punto anche dell’essere guardato. La chiave sta proprio nell’aver usato due fotocamere, perché improvvisamente, dal momento che si vede anche il fotografo, cambia la percezione della situazione. Quello che si pensava essere colui che guarda, viene guardato sia da un occhio esterno, quindi come se potesse essere anche giudicato da quest’occhio. Allora ci si accorge, in un gioco di specchi, che anche il soggetto guarda chi lo guarda.

La fisicità del fotografo cambia il punto di vista?

Sì, con questo lavoro volevo banalmente rendermi conto come sono, come devo fare per ottenere una certa foto, in quale relazione fisica mi metto con il soggetto e quale interazione fisica mi produce quell’immagine. E’ abbastanza interessante notare che se usassi solo le foto che ho scattato con la macchina e non con il cavalletto, avrei una galleria di ritratti fotografici femminili più o meno belli o interessanti, ma niente di più. E’ solo nel momento in cui l’operatore entra in campo che il lavoro esplode nel suo significato anche perché la fotografia, cosa che mi ha colpito da sempre, è una grande esclusione. La porzione di mondo che inquadriamo è ridicola di fronte a tutto quello che non inquadriamo.

In quest’atto performativo c’è anche la memoria di Blow-Up di Antonioni?

Blow-Up è, forse, il film che mi ha fatto diventare fotografo, sia per aspetti totalmente superficiali come il protagonista che guida la Rolls-Royce (ride) con i Levi’s bianchi e butta la Nikon nel cruscotto. Pensavo che avrei voluto essere così! Ma c’è anche la profondità del film nel suo interrogarsi su cosa sia il reale, cosa vediamo, cosa la fotografia registra o non registra.

Era un ragazzino quando ha preso in mano per la prima volta la macchina fotografica: il suo primo lavoro significativo è del’73…

Sì, ero molto giovane. Il primo lavoro importante, che rimane tale anche oggi, è Bambini di Pioltello del ’73. L’ho fatto per l’esame all’Umanitaria di Milano, una scuola magica che sembrava più un’università che una scuola professionale. Con il tempo le fotografie acquistano un senso che è anche storico, è stato così anche per quel lavoro che, comunque, era molto forte e sentito.

Alla Società Umanitaria, diventata in seguito Centro di Formazione Professionale della Regione Lombardia Riccardo Bauer, insegnava anche Giovanna Calvenzi…

Sì era la mia insegnante di storia della fotografia.

Allora era impegnato politicamente…

Quando ho iniziato a fotografare, all’inizio degli anni Settanta, erano anni politicamente molto schierati. Ero un fotografo di Lotta Continua. Ho ancora la tessera n. 4. Nasco con il reportage sociale, quello che chiamavamo concerned photography, cioè la fotografia impegnata a raccontare la realtà sociale di quegli anni. Ma credo che, persino quando mi occupavo dei bambini disagiati dell’estrema periferia milanese quello che mi interessava era il linguaggio stesso della fotografia. Inoltre, come ho detto altre volte, la fotografia mi ha salvato la vita.

In che senso la fotografia le ha salvato la vita?

Non mi chiamo Toni, il mio nome è Christophe Antoine Thorimbert, sono nato a Losanna ma la mia nascita svizzera è irrilevante, perché vivo in Italia da sempre e dove sono cresciuto, ai confini tra Cernusco e Pioltello – non ci si poteva chiamare così. Gli anni Settanta sono stati anni di fortissima illegalità, poi è cominciata ad arrivare l’eroina ma proprio in quel momento ho scoperto la fotografia. Quindi tutto quello che era il mio tessuto sociale si è completamente disgregato. Venendo a Milano mi sono salvato grazie alla fotografia. Le prime stampe che fortunatamente ancora ho dei Bambini di Pioltello le ho stampate nella camera oscura di Gabriele Basilico.

Gabriele Basilico è stato uno dei suoi mentori?

Da Gabriele, nella frequentazione con lui, ho assorbito tutta una serie di valori che sono collegati all’agire fotografico ad un certo livello, però le mie ispirazioni sono altre. Mi hanno ispirato soprattutto William Klein, Ugo Mulas, Robert Frank, Lee Friedlander… Erano anni in cui la fotografia era vissuta attraverso i libri e non con google, quindi il rapporto che si sviluppava con questi autori era come più tangibile.

Il passaggio alla fotografia di moda come è avvenuto?

Per anni sono stato un fotografo di moda insofferente persino a dire che lo ero. Di fatto sono sempre stato un outsider, però effettivamente ho fatto tanta moda. Dalla metà degli anni Novanta ho cominciato a farla senza sensi di colpa, usando la moda come un territorio di sperimentazione sul linguaggio della fotografia.

Perché la rendeva insofferente anche solo dichiarare di fare fotografia di moda?

Perché sono un ex di Lotta Continua! (ride) Mi sembrava un modo per guadagnare dei soldi, cosa che ho sempre dovuto fare, che non mi apparteneva molto. Finché non ho scoperto che, invece, mi apparteneva enormemente la possibilità di sperimentazione del linguaggio che questo territorio industriale che non ha assolutamente niente di frivolo mi poteva offrire. Anche Helmut Newton diceva che fare fotografia di moda gli aveva permesso di avere i soldi per le modelle, i truccatori, viaggiare, quindi avere i mezzi per sperimentare i suoi linguaggi. Mi sono molto identificato in questo atteggiamento. Faccio la moda perché mi dà la possibilità di sviluppare il mio linguaggio.

Continua ad avere voglia di sperimentare?

Guido (Harari) mi ha fatto una domanda simile qualche minuto fa. “Fai o guardi indietro?”, mi ha chiesto. Sicuramente sono in questo confine, guardo avanti con la necessità di rielaborare e riguardare il mio lavoro fino ad oggi con un occhio nuovo, in grado di raccontare quello che è successo. Credo che ad un certo punto della propria carriera si debba guardare indietro per trovare i nessi, le connessioni che fanno parte della propria vita e dei sentieri che percorsi nel territorio della fotografia.

Parlando d fotografia ricorre spesso alla metafora del cavallo…

Ho avuto cavalli e ce l’ho ancora, anche se adesso vado molto in motocicletta. Ai miei studenti dico sempre che si dovrebbero dare prima all’ippica e poi alla fotografia, perché (ride) ci sono dei nessi. Soprattutto quando si fotografano le persone si ha la necessità di creare un’esperienza condivisa, di percorrere un pezzo di strada insieme, ma, come per l’uomo e il cavallo, s’incontrano due volontà: io voglio andare di qua, tu vuoi andare di là. L’equitazione insegna a trovare il modo di andare insieme dalla stessa parte.