Questo 2017 non è soltanto il centenario di una rivoluzione che ha fatto tremare il mondo.

Sono passati duecento anni da quando a Concord, sulla costa orientale degli Stati Uniti, nasceva un pensatore che avrebbe segnato, con il suo camminare, scrivere e pensare il mondo, un territorio molto più vasto di quello intorno alla sua capanna di tronchi sul lago Walden, nella quale andò a trascorrere lunghi anni della sua vita.

Henry David Thoreau è stato il capostipite di una filosofia nonviolenta, disobbediente, assolutamente in controtendenza rispetto allo sviluppo impetuoso della «civiltà» che proprio in quel secolo andava spazzando via paesaggi, cancellando etnie, imponendo ritmi artificiali ad un «nuovo mondo» fino ad allora attraversato da milioni di bisonti. Prendere in mano il suo testamento, solo una piccola parte di un suo diario intimo molto più vasto, significa respirare un’altra epoca. Thoreau amava camminare, amava costruire con le sue mani, amava coltivare, divideva il suo tempo egualmente tra la scrittura e le incombenze necessarie per vivere nei boschi. Una scrittura puntuale, precisa, una scrittura lettura di ciò che gli avveniva intorno.
Thoreau aveva una solida formazione classica, pure nella descrizione della formazione di una crosta di ghiaccio nel suo lago, e nelle infinite forme che vedeva affiorare al tempo del disgelo, non tralascia di lasciar scorrere figure mitologiche, etimologie dotte, riferimenti letterari.

La commemorazione sulla sua tomba fu letta dal suo amico Emerson.

Era un intellettuale vero, di quelli scrupolosi, in ascolto di un proprio fluire interno poetico e composto. Un poeta, una persona curiosa, quando descrive le piante, gli uccelli, gli animali incontrati nel bosco. Ma di lui, ci resta questo? Il ricordo vivido di un intellettuale che ha saputo vivere, oppure è altro che ce lo ha consegnato facendogli superare i secoli? Gandhi, Martin Luther King lo avevano a modello, Marx stesso lo aveva letto.

Thoreau trascorse qualche notte in guardina per essersi rifiutato di pagare le tasse. Era contrario alla guerra che il suo paese stava muovendo al Messico, una tra le tante, non sarà stata la prima e non sarà l’ultima, e per questo non voleva sovvenzionarla con le sue tasse. I nonviolenti ancora oggi è questo che predicano e praticano. Thoreau non ha mai fatto parte dell’élite del suo tempo. Ci parla della sua vita e leggerlo è riposante, egli vive il suo tempo. Nella sua capanna, mai chiusa a chiave, non temeva né ladri né visitatori importuni, era accogliente ed ospitale. Una volta gli venne a mancare un Omero, ma, scrisse, lo avevano preso, chissà, forse ingolosti da una copertina troppo dorata.

Difficile non innamorarsi di questo suo diario, di questa sua Vita nei boschi.

Negli anni Sessanta, negli Usa, soprattutto sulla west coast, nell’ambiente poetico più avvertito, nella tempesta pacifista e psichedelica della Bay Area, Thoreau rinacque. Un ambiente di contestazione intellettuale e non solo, riscoprì la sua scrittura e la sua visione della natura. I bisonti, che ai tempi di Thoreau a decine di milioni scorrazzavano per la prateria, non c’erano più. I nativi americani, scomparsi con loro. Gli Stati Uniti erano diventati una potenza mondiale supersviluppata e dotata di armi atomiche. Una generazione nuova mise in discussione tutto. Con la crisi ecologica sotto gli occhi di tutti, proprio negli Usa furono scritti i primi libri che incrinarono per sempre il modello industrialista. Silent spring (Primavera silenziosa) di Rachel Carson è di quegli anni, è un invito a ripensare il modo di stare al mondo.

L’opera di Thoreau fu preziosa al pari del viaggio in India di molti tra quelli che poi sarebbero stati definiti beatnik o hippy, contribuì alla elaborazione di un altro pensiero. Vivere la terra come se questa fosse una cosa vivente, una divinità.
Nacque in quegli ambienti il pensiero bioregionalista. L’opera che riassume meglio questa corrente, che uscirà dagli States ed influenzerà la nascita di un pensiero ecologista a livello mondiale, è certamente Le regioni della natura di Kirkpatrick Sale. Direttamente da Thoreau – e da altri pensatori ed artisti del movimento – i bioregionalisti hanno rielaborato il rifiuto dell’autorità statale, una proposta di vita a misura d’uomo, il riconoscersi nei luoghi, il ridisegnare una mappa che non sia coincidente con i confini politici della «bioregione» ma solo con i suoi limiti naturali. Un movimento che nonostante la repressione – non si contarono gli arresti, gli scontri e nemmeno i morti – contribuì alla nascita degli ecologisti negli Usa e nel resto del mondo.

Vivere e pensare come se la Terra fosse una divinità, una entità degna di rispetto e venerazione. Tutto il pensiero bioregionalista è fortemente incentrato sull’idea di «Gea» o di «Gaia», organismo vivente. Tutti i bioregionalisti si impegnarono per impedire gli scempi nelle regioni dove vivevano e il movimento ancora oggi si nutre della critica alla globalizzazione. Ritirarsi in campagna o a San Francisco, cercare di portare la campagna in città con l’istituzione dei parchi pubblici e degli orti condivisi, l’amore sconfinato per la terra, per la vita selvatica, la messa in discussione del primato della specie umana rispetto a tutte le altre, tutto ciò si ricollega al boscaiolo e poeta di Concord.

Henry David Thoreau, conversando con i cacciatori di passaggio nella sua capanna, scrive chiaramente di essere vegetariano. Lunghe pagine fissano la sua visione misericordiosa sul creato. Egli è il precursore di un pensiero verde, infinitamente vivo e vitale. Riprendere in mano il suo libro-testamento di questi tempi, con il negazionismo sui cambiamenti climatici arrivato alla Casa Bianca, torna ad essere molto utile. L’umanità ha sempre avuto bisogno di una Rivoluzione. Una «Co-evolution», come i bioregionalisti chiamano un nuovo modo di stare in pace, in comunione con tutti gli altri esseri viventi, oggi è più che mai necessaria.