Crossmedialità mon amour. L’universo Marvel, rispetto a quello dichiaratamente analogico della DC, è sempre stato in attesa del digitale. Non è un caso che sul finire degli anni Settanta, gli eroi di Stan Lee faticavano a conservare sullo schermo il medesimo passo agile della pagina disegnata mentre il Superman di Richard Donner spiccava maestoso il volo. La Marvel, rispetto all’epica orizzontale della DC, ha sempre lavorato su una stratificazione di piani che l’analogico non è mai riuscito a rendere in tutte le sue sfumature. Laddove la DC ha sempre conservato un approccio da New Deal, quindi racconto di un’intera nazione, la Marvel, individualista (super-eroi con super-problemi) e animata da un rampante tecnofeticismo, ha sempre tentato invece di sfondare la bidimensionalità della pagina per toccare lo spettatore e dare vita a un’altra nazione.

Esemplare la saga dei vendicatori di Roy Thomas e John Buscema, in questo senso, o lo spettacolare Uomo Ragno di John Romita, le fantasmagorie di Jack Kirby o le anatomie di Gene Colan quando lavora su Devil. Così mentre alla fine degli anni Settanta il Superman di Christopher Reeve solca maestoso i cieli e lo spazio-tempo (apogeo del cinema analogico e bidimensionale), l’Uomo Ragno di Nicholas Hammond (che appare sulla copertina del seminale I film di carta di Claudio Bertieri) si sposta goffamente, con uno charme a suo modo naïf, dal piccolo schermo a quello cinematografico non riuscendo mai a mascherare l’inadeguatezza della transizione.

Solo con l’avvento di Sam Raimi, primo a intuire la complessità volumetrica inerente all’universo ideato da Stan Lee, s’inaugura formalmente l’era della Marvel cinematografica. E, al contrario, anticipando una conclusione, vanamente Christopher Nolan e, soprattutto Zack Snyder, tenteranno di adattare alla neo-sensibilità digitale Superman e Batman, emissari di un Olimpo che esisteva prima del tempo e che saranno anche dopo la fine del tempo stesso e che pertanto faticano a esistere nel qui e ora della condivisione a meno che non si possegga l’afflato normanrockwelliano delle energie combinate di Christopher Reeve e Richard Donner. Questo per dire che Thor – The Dark World, diretto da quel Alan Taylor che si è fatto le ossa con i Sopranos e Il trono di spade, è un adattamento perfetto dello spirito della tavola marvelliana alle ragioni e alle dimensioni dello schermo post-cinematografico.
Le scenografie green screen sono la traduzione filologica delle fantasmagorie asgardiane di Lee e Kirby, che a loro volta erano già una reivenzione royliechtensteiniana dell’epica norrena dell’Edda. In questo senso il film rende omaggio rispettosamente alla poetica eroica di Jack Kirby così come la riassumono Stefano Perullo e Gianfranco Giardina nel volume Jack Kirby – Tributo al Re: «Grande è la nostra responsabilità, perché il loro agire futuro sarà influenzato dalla grandezza delle nostre azioni. Per questo vi creai così puri. E per questo sono così orgoglioso di voi».

Rispetto dunque alla grevità snyderiana, il pantheon asgardiano secondo Taylor è simile al campionario dei vizi e delle virtù degli dei ellenici: coraggio, invidia, rancore, odio, generosità e, soprattutto, tanta ironia. Thor sulla terra è incongruo, fuori posto e Taylor e lo sottolinea con una serie di throw-away gag fulminanti: il dio del tuono durante una battaglia è costretto a prendere la metro, in un’altra occasione monta in macchina con la medesima agilità di Schwarzy alle prese con una smart e dopo una giornata di dure battaglie appende il Mjolnir (il martellone) all’appendiabiti di casa Foster. La carica degli elfi malvagi portatori di oscurità, la battaglia sullo sfondo della city di Londra (ancora una volta metropoli dove comincia il tempo), orchestrata come se Thor e Algrim/Kurse fossero degli Jumper dimensionali, la sotto-trama che vede Loki protagonista di una serie di twist tanto prevedibili quanto irresistibili, senza contare la supervisione di Brian Michael Bendis, supremo architetto della continuity Marvel nonché i due sottofinali sui titoli di coda, fanno del film diretto da Alan Taylor uno dei migliori film super-eroistici di sempre.

Infine va segnalata sicuramente la breve comparsata di Chris Evans nei panni di Capitan American, i riferimenti alla battaglia per New York del primo capitolo dei Vendicatori e l’introduzione delle gemme dell’infinito, che si riallaccia al cameo di Thanos sul finale del film di Joss Whedon, confermano che la Marvel ha creato una continuity cinematografica alternativa e parallela a quella dei fumetti. Come dire: crossmedialità mon amour!