Nei vent’anni abbondanti dalla sua fondazione, Fazi editore si è sempre contraddistinto per un’attenta azione di recupero e rilancio di autori, soprattutto americani, inediti in Italia o precipitati in un oblio immeritato. Grazie ad antenne particolarmente sensibili, nel catalogo della casa editrice romana hanno trovato posto molti tra i capolavori di John Fante (ora proposti da Einaudi Stile libero) e piccole gemme come Città amara di Leonard Gardner – tra i pochi romanzi veramente grandi sul mondo della boxe, vero rovescio del sogno americano – o il raffinato Cassandra al matrimonio, di Dorothy Baker. Per non parlare di quello che è stato forse il caso letterario più clamoroso degli ultimi anni: Stoner, capolavoro dimenticato di quel John Williams che il pubblico italiano conosceva solamente per un bellissimo romanzo storico sull’imperatore Augusto, e che invece aveva scritto alcune tra le pagine più quietamente deflagranti sulla repressione dei sentimenti, il sogno dell’arte, le vite dimenticate e in sordina che si agitano nel cuore profondo di un Paese.
Ora, l’operazione di scouting e ricerca di Fazi ci propone un nuovo frutto, che ha anch’esso tutti i numeri per poter diventare un piccolo evento: I capelli di Harold Roux (pp. 478, euro 18,00, traduzione efficace di Nicola Manuppeli e Giacomo Cuva), romanzo vincitore del prestigioso National Book Award nel 1975, caduto nel dimenticatoio anche negli Stati Uniti fino alla sua ripubblicazione nel 2011, con un’introduzione altamente elogiativa di Andre Dubus III. L’autore, Thomas Williams, ne aveva scritti altri sette, alternandoli a un’apprezzata produzione di racconti: vissuto per quasi tutta la vita nel New Hampshire, insegnando alla locale università e conducendo un’esistenza riservata e raccolta, segnata dalla passione per la caccia, aveva avuto tra i suoi allievi John Irving, che ha contribuito e non poco al suo rilancio.
Nonostante la curiosa, parziale omonimia con John Williams, e la comune qualifica di campus novels, qualunque paragone tra I capelli di Harold Roux e Stoner sarebbe tanto immotivato quanto fuorviante: è difficile immaginare due romanzi che, prendendo le mosse da situazioni analoghe (un protagonista che dedica la propria vita all’insegnamento e all’arte; un’università lontana dai centri pulsanti della vita americana; un senso di insoddisfazione e un’angoscia del vivere che si irradia e si riflette su tutti i personaggi che a turno occupano la scena), le sviluppino in modo così antitetico.
Più interessante e produttivo, forse, può risultare il paragone tra Williams e gli autori che gli contesero il National Book Award. Nel 1975, il premio fu assegnato ex-aequo, oltre che a I capelli di Harold Roux, anche a Dog Soldiers – il grande romanzo su Vietnam e droga di Robert Stone, anch’esso fuori stampa da decenni e originariamente proposto in Italia da Bompiani con il fantasioso titolo I guerrieri dell’inferno –, mentre tra i finalisti figuravano un maestro del tardo modernismo come Vladimir Nabokov e il Philip Roth de La mia vita di uomo. Ebbene, il romanzo di Williams sembra racchiudere in sé elementi di tutti e tre i grandi concorrenti che ho elencato.
Un rapido sguardo alla trama e alla struttura del libro è sufficiente a comprendere quanto i paragoni con Stone, Nabokov e Roth siano sensati e non pretestuosi. I capelli di Harold Roux è in primo luogo la storia di un professore universitario del New England, Aaron Benham, che si è appena preso un anno sabbatico per poter scrivere un romanzo, il cui titolo di lavoro è «I capelli di Harold Roux». La storia gli preme da dentro: gli basta leggerne il titolo, scritto con grafia pretenziosa sulla prima pagina del suo quaderno di lavoro, per trovarsi, «quasi contro la propria volontà, a scrutare, a sforzarsi di vedere, come fosse dietro una sottile parete di ghiaccio, quella pianura lontana e lunare, quel fuocherello, unica scintilla calda dell’immenso, increato vuoto attorno al quale i suoi personaggi aspettano». Sono proprio i personaggi a chiamarlo a sé, a chiedergli con insistenza di dar loro vita: da Allard, vero alter ego autoriale, studente universitario, reduce di guerra e aspirante scrittore, diviso tra l’amore spirituale per la cattolica e virginale Mary Tolliver e quello carnale per l’ebrea marxista Noemi, a Harold Roux, goffo e idealista, che vive sublimando le sue pulsioni più oscure in racconti di insostenibile e zuccheroso romanticismo, proprio come nasconde l’incipiente calvizie dietro un improbabile parrucchino color carota. Ma Aaron, per citare il bellissimo incipit del romanzo, «ascolta le voci sbagliate»: quella di sua moglie, Agnes, e dei suoi due figli, cui racconta sempre la stessa fiaba, sera dopo sera; quelle dei suoi studenti, ai quali legge racconti ed esperimenti letterari composti in attesa di metter mano al romanzo, ricavandone commenti ora sprezzanti, ora esaltati; quella dell’amico George, che non riesce a completare la tesi di dottorato grazie alla quale potrebbe salvare il suo posto di insegnante. Distratto da queste mille incombenze, Aaron si perde: eppure il romanzo va avanti, e alle voci di chi gli sta intorno e chiede disperatamente il suo aiuto si sommano e alternano quelle di Allard, Harold, Mary, finché i due livelli della narrazione si sovrappongono e non è più possibile stabilire in quale misura, scrivendo «I capelli di Harold Roux», il protagonista non stia in realtà parlando di se stesso e della deriva nella quale di giorno in giorno e implacabilmente precipita.
Ecco allora il senso degli accostamenti: il raffinato intarsio tra livelli differenti di narrazione e la tensione verso il metaromanzo ricordano da presso alcuni tra i capolavori di Nabokov, Fuoco pallido sopra tutti; la capacità di immergersi nel mondo della protesta studentesca (che sia quella contro il Piano Marshall e l’anticomunismo, nelle pagine del romanzo che Aaron sta scrivendo, o quella anti-Vietnam che il professore vede montare intorno a sé) e di narrarne la disillusione ha diversi punti in comune con il ritratto al vetriolo dell’America costruito da Robert Stone; la vitalità furibonda, la sensualità e la ribalderia della vita studentesca raffigurata nel romanzo cui Aaron sta lavorando, come le pulsioni erotiche ed errabonde da cui il protagonista si lascia trascinare nella vita di tutti i giorni, fanno pensare a tante pagine di Roth, e in particolare della trilogia di Zuckerman.
Scritto nel periodo in cui il postmodernismo letterario raggiungeva il suo apogeo (l’anno precedente, il National Book Award era andato a L’Arcobaleno della gravità, di Pynchon, e nel 1976 sarebbe stato premiato JR, di William Gaddis), I capelli di Harold Roux ne raccoglie in parte l’eredità. Si appropria soprattutto della pulsione metanarrativa, ma l’incastro di storie che ne deriva, più che innescare una riflessione sull’instabilità del reale o sull’esaurimento di ciò che è narrabile, si traduce in un elogio dell’immaginazione e della scrittura, di quel gesto sovrano grazie al quale, a partire da una fiammella quasi invisibile, l’immenso increato nel quale i personaggi si agitano si riempie e prende vita. Non stupisce allora che in prima fila, tra i tanti ammiratori di Williams, vi sia Stephen King: il più grande inventore di storie del romanzo americano contemporaneo, ma anche l’artefice, con La metà oscura, di una delle riflessioni più angosciose sul travaglio della scrittura e sulla misteriosa tirannia dei personaggi.