Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, la critica anglosassone aveva sostanzialmente ignorato la poesia di Thomas Hardy, il che non sorprende visto ciò che ne aveva scritto Eliot nel 1934 in After Strange Gods: A Primer of Modern Heresy: «L’opera del compianto Thomas Hardy fornisce l’interessante esempio di una personalità possente non frenata da alcuna adesione istituzionale o dalla sottomissione ad alcuna credenza oggettiva … Mi sembra che egli abbia scritto più di chiunque altro al fine di ‘esprimere se stesso’; e il se stesso che aveva da esprimere non mi colpisce come oggetto di comunicazione particolarmente sano o edificante».

Hardy era per Eliot un «liberale» eretico, razionalista e individualista che, rifiutandosi di aderire a una «teologia dogmatica» per «appetito di indipendenza intellettuale», aveva «bacato» la società. Fosse o meno quello il verme, l’avversione di Eliot è comprensibile. Nel 1922, l’anno in cui uscì La terra desolata, Hardy aveva scritto: «al momento la credenza nelle streghe di Endor va soppiantando la teoria Darwiniana e ‘la verità che rende liberi’; la mente dell’uomo sembra muoversi all’indietro piuttosto che avanti». E citava il passo di Wordsworth in cui la poesia non viene contrapposta alla scienza, ma è «l’espressione appassionata» della scienza stessa.

Fortuna critica

Con la «dispatia» della critica polemizzò vivacemente Philip Larkin, forse il maggiore dei poeti inglesi del secondo dopoguerra. «La critica moderna» scrisse nel 1966 «prospera sul difficile – o sullo spiegare il difficile, o sullo spiegare che ciò che sembra facile è in realtà difficile – e Hardy è semplice». E tuttavia, per Larkin, quello hardyano è «di gran lunga il migliore corpus poetico che questo secolo sia finora stato in grado di esibire». Il suo esempio era stato fondante, oltre che per Larkin stesso, per ciò che di meglio la poesia inglese aveva prodotto dopo Eliot. Dylan Thomas confidò a Vernon Watkins di aver ammirato Hardy «più di tutti i poeti di questo secolo».

Fin dal 1940 W.H. Auden aveva dichiarato che il suo maestro era stato Hardy, sia per l’inaudita varietà delle sue forme metriche e strofiche, sia per l’uso di una retorica moderna ma non modernista che gli appariva «più fertile e adattabile a diversi temi di qualsiasi gasometro o zampa di topo di Eliot». Iosif Brodskij, di cui è nota l’adorazione per Auden, ha scritto che «se Eliot, al tempo in cui leggeva Laforgue, avesse letto invece Thomas Hardy la storia della poesia di lingua inglese in questo secolo – o almeno il suo corso attuale – potrebbe essere un po’ più avvincente». Molti «giganti moderni», scrive, escono drasticamente ridimensionati da un confronto. Come Auden, riteneva che da Hardy ci fosse molto da apprendere. Il primo compito che assegnava nei suoi corsi alla New York University era imparare a memoria The Darkling Thrush, una celebre poesia in cui un vecchio tordo, nella cupa notte del 31 dicembre 1899, scaglia contro le tenebre una «gioia illimitata».

I romanzi di Thomas Hardy non hanno mai cessato di essere ristampati e tradotti. Pure, egli cessò di scriverne nel 1896, quando Giuda l’oscuro, rinominato Giuda l’osceno, fece scandalo e venne pubblicamente bruciato dal vescovo di Wakefield. Da allora in poi scrisse solo poesia, la cui fortuna, in Italia, è stata esigua. Di una prima sostanziosa traduzione (88 poesie pubblicate da Guanda nel 1968) siamo debitori a un italianista indiano che insegnava a Belfast, G. Singh. Ventiquattro anni dopo, in Maria Stella, Momenti di visione (FrancoAngeli, 1992), sono tradotte 80 poesie – ma poiché l’autore del libro risulta Stella e non Hardy la sua circolazione non ne ha beneficiato. Nel 2010 io stesso ho tradotto per Marsilio 54 testi dedicati alla moglie morta: Poesie per Emma. E questo, grosso modo, è quanto. Particolarmente benvenute, a cura di Edoardo Zuccato, sono dunque le 91 traduzioni ora presenti in Thomas Hardy, L’orologio degli anni Poesie 1857-1928 (Elliot, pp. 320, € 20,00).

Un animo torvo

Da bambino Hardy aveva accompagnato il padre, un muratore che suonava il violino nelle feste paesane, ed egli stesso ricorda lo stato di «estasi» in cui entrava ballando da solo al suono delle interminabili gighe suonate dal padre. Mentre il grande modernismo, figlio del simbolismo francese, pensava a rivaleggiare con Wagner per «reprendre à la Musique son bien» (Valéry), Hardy è segnato da questa musica arcaica. Certo, egli era deciso a «guardare bene in faccia il Peggio» (In Tenebris II) in qualsivoglia forma si manifestasse e a non risparmiarne alcuna al lettore. Raramente intende offrire una pur minima consolazione di fronte all’imperscrutabile mancanza di senso dell’universo, e certamente non la trova nella religione. In Interrogazione della natura la natura si chiede se ciò che la governa non sia altro che una «Vast Imbecility».

Zuccato, quasi non fosse abbastanza, traduce con «Immensa Idiozia». Forse non riesce a togliersi di testa il vecchio Macbeth che tre secoli prima, senza Darwin, era giunto alla conclusione che «la vita è un racconto / raccontato da un idiota, pieno di suoni e furia, / che non significa nulla». E tuttavia, per quanto cupo possa essere questo poeta, l’istinto estatico del bambino non si estinse col tempo, e che il vecchio tordo assomigli a Hardy stesso è evidente. Ma anche quando non c’è alcuna «gioia illimitata» da scagliare contro le tenebre, la felicità ritmica e formale delle sue poesie produce un piacere che è di per sé un conforto.