Per bocca di uno dei suoi personaggi, l’intramontabile Franz Joseph Murau di Estinzione, Thomas Bernhard si definì un «artista dell’esagerazione», insieme abbreviando una maniera, compendiando una poetica, giustificando il noto contegno che teneva in pubblico. La definizione gli era servita, nell’ultimo scorcio della sua vita, per mettere avanti le mani, quasi un’excusatio non petita da esibire a chiunque rilevasse i furori, i parossismi, le colate d’ira, il ritmo a martello del suo scrivere.

Già per suo conto, tuttavia, questa definizione agiva come metatesto, insieme una messinscena e un’(auto)rappresentazione. Forse persino un atto mendace, perché Bernhard è sempre stato attore di sé, dramatis persona e performer senza bisogno di nuovi media, consapevole, come ogni scrittore e forse più ancora, dell’incancellabile sutura tra la verità e il suo opposto. Anche Midland a Stilfs, in cui due racconti su tre sono inediti (nella traduzione bella e coinvolgente di Giovanna Agabio, Adelphi, pp. 121, € 12,00) è un trittico dell’esagerazione, un ventaglio di prose apparse in tedesco cinquant’anni fa, come tre carte in una mano che, nella brevità di cento pagine o poco più, distillano un concentrato dell’arte sinfonica bernhardiana.

La storia che apre e intitola la raccolta gira, come su un cardine, intorno allo stesso luogo alpino, teatro della solitudine d’alta quota di due fratelli, l’uno narratore, l’altro doppio e simmetrico rispecchiamento, richiamato nel riflesso della voce che racconta, presente come un’ombra a rafforzarne il ductus monologico. Nella località sudtirolese – un tempo fiorente, ora poco meno che un anacronismo – i fratelli moltiplicano giornate uguali insieme a una sorella invalida e a un aiutante mezzo schizofrenico che, con loro, manda avanti un’azienda agricola, buona solo a scandire il passare dei giorni e teatro di un lavoro quotidiano che incurva le schiene e sfinisce senza senso e prospettiva.

Autistica, battente discorsività
In parallelo, ma per moto contrario, l’abitazione ricevuta in eredità va in rovina, i pavimenti si imbarcano, i mobili si sfarinano rosi dai topi, i quadri penzolano, l’odore di marcio è dilagante, gli arredi stile Impero mai più sfiorati, come in un raggelato mausoleo. In questo requiem per una vita ormai consunta, la natura è, come sempre in Bernhard, elementare e assoluta, sovrana senza contrasto, aspra e malata come i suoi abitanti, fuori da ogni arcadica solarità. Contro questo sfondo, in un presente autistico che ristagna senza progresso, i fratelli ragionano tutto il tempo di suicidio, senza mai passare all’atto, e attendono l’arrivo, ciclico e rituale, di Midland, un inglese che una volta l’anno fa visita alla tomba della sorella. Ombra nietzscheana di uno Zarathustra in sedicesimo, potenziale deus ex machina cui i fratelli non concedono efficacia, forestiero che introduce possibili riassetti e riformulazioni identitarie, l’inglese ha mille pensieri per la testa di cui non riesce a mettere per iscritto una riga, è un brillante e infaticabile conversatore che ride di gusto e non teme la vita, offrendo agli autoctoni un barlume di senso, subito estinto nell’acuta consapevolezza della finzione.

A «Midland a Stilfs» segue il «Mantello di loden», virtuosistica verbalizzazione, fatta da un soggetto plurale – forse ancora due fratelli – del racconto di un avvocato di Innsbruck che, a sua volta, registra la proliferante istanza monologica di un cliente, proprietario di un negozio di articoli funebri, il cui cappotto eponimo funziona da trigger del mulinello narrativo. Di nuovo cerchio dentro cerchio, in una narrazione che scende a cascata e che porta l’occhio dall’inizio della pagina alla fine, in una discorsività battente, che non smette di riavvolgersi su se stessa e da cui, una volta entrati, pare di non poter uscire più.
Un filo sottile, ma tenace, conduce d’un fiato alla conclusione, annodando voce a voce, con una lucidità che agghiaccia e che lascia il lettore frastornato a contemplare la geometria delle (proprie) ossessioni.

Ultima tessera è «Sull’Ortles. Notizie da Gomagoi»: un’altra delirante topografia alpina e di nuovo due fratelli, l’uno scienziato, esperto di strati atmosferici, acrobata l’altro. L’uno narratore, l’altro voce riportata, nell’ininterrotto travaso dei turni di parola e di pensiero. La narrazione procede letteralmente di pari passo all’ascensione verso una malga sotto il massiccio dell’Ortles, e i due fratelli, salendo in un’aria sempre più rarefatta e con accelerazione costante, tornano con la mente all’esercizio delle proprie professioni, fino allo sfinimento per una perfezione inattingibile, e all’infanzia su cui incombono, totemiche e minacciose, le figure dei genitori.

Secondo lo stretto connubio del camminare e del pensare, collaudato in Thomas Bernhard ma non solo – si pensi alla Passeggiata di Robert Walser, alla promenadologia estetica di Lucius Burckhardt o, a monte, alle divagazioni del russoviano Sognatore solitario – le frasi sono sincrone ai passi, in una sintassi che segue, per dichiarazione esplicita, il ritmo del respiro, unica legge che governa lo sforzo fisico o intellettuale. La camminata sull’Ortles è sempre più svelta e porta anche il pensiero a scorrere sempre più fitto, fino alla sommità, in un capogiro verbigerante che procede in saturazione d’ossigeno e in accelerazione vorticosa verso esiti insieme apodittici e aporetici, dove la perfezione, inseguita dai protagonisti sul filo di progetti titanici quanto estenuanti, coincide sempre con la follia e con la morte.

Tra lingua e illusione
La dinamica, più o meno simbiotica, dei fratelli e il comune contemptus mundi – una condivisa metafisica della bile che li porta all’isolamento in spazi angusti e claustrofobici, cui risponde una dilatazione del pensiero fino ai limiti della ragione – è un topos bernhardiano già dal romanzo d’esordio, Gelo, e dall’opera seconda Amras. Così come è un luogo classico della sua scrittura la fascinazione per l’artista – che sia circense, acrobata o virtuoso del canto – e per il suo inesausto e mai appagato anelito verso la perfezione tecnica. Nello sdoppiamento delle voci e nella rifrazione dei percorsi narrativi, lo stesso Bernhard è un funambolo, sempre in bilico sulla corda tesa tra ironia e serietà, tra autorevolezza e auto-disconoscimento, tra il grano di sincerità e la quota di inganno insiti nella lingua.

Erede, insieme a Ingeborg Bachmann, di quella linea di pensiero austriaca che ha stazioni decisive nella scepsi linguistica di Hofmannsthal e nella filosofia di fine secolo – da Ernst Mach a Fritz Mauthner al Wiener Kreis fino al primo Wittgenstein – Bernhard ragiona sul linguaggio e sulla sua ineliminabile finzione, sul carattere prospettico e prismatico della verità, sul nesso inscindibile tra lingua e illusione, sviluppando premesse già poste, fuori dall’Austria, dal trattatello nietzscheano Su verità e menzogna in senso extramorale. Erede ‘ultimo’ e definitivo, senza riserve e senza riguardo, che della lingua, e delle sue turbinose giravolte, fa strumento corrosivo per smascherare la realtà.