Con il breve e rapido La stanza di Therese (Tunué, pp. 150, euro 12), Francesco D’Isa si conferma tra gli scrittori più interessanti e originali del panorama italiano, riuscendo a dare forma anche con le opere precedenti a un percorso autonomo e indipendente, più che da fastidiosi sensi di appartenenza che prendono quasi sempre la forma di una subalternità castrante e creativamente vincolante.

E SI PUÒ DIRE SCRITTORE perché D’Isa supera anche l’asfissiante norma che vede sempre più imporsi – in particolare nel panorama italiano – i cosiddetti narratori, spesso figli di un equivoco che ha ridotto (con la complicità colpevole di critici non sempre vigili) buona parte della letteratura contemporanea italiana a un fienile di trame e storielle più o meno anemiche. Racconti che in nome del dio storytelling hanno smesso di immaginare linguaggi capaci di restituire forma e peso a una percezione culturale della realtà di cui oggi l’Italia intera avrebbe fortemente bisogno. La stanza di Therese, meritoriamente e coraggiosamente, riesce in questo intento e lo fa con una lingua ricercata che rifiuta l’ovvio del piano e del descrittivo, ma evita accuratamente anche un certo movimento che si vorrebbe gaddiano o alla Landolfi e che il più delle volte prende la forma di un inutile barocchismo di maniera incapace anche di ironia e quindi di parodiare e rigenerare in qualche modo lo sguardo e la sua conseguente visione.

PRENDE FORMA nel minimale di una stanza chiusa, Therese, ma questo non è altro che il punto di partenza per una riflessione che dalla pulizia dell’assenza diviene il fuoco per una condizione opprimente e quindi viatico di una riflessione attiva e continua di crescente forza che si muove all’interno di un gioco di liberazione e di desiderio. Scrive delle lettere, la protagonista che dà il titolo al romanzo e legge le risposte della sorella; riscrive e rilegge gli appunti e i disegni che vi ritrova come piccoli scarabocchi di pieghe di pensiero che appaiono nelle risposte della sorella.

NULLA DI PIÙ SEMPLICE di una scrittura epistolare e della sua lettura, nulla di più complesso ed efficace per un lettore in cerca di uno spazio di narrazione che abbatta i disgraziati muri del conformismo come della ribellione di maniera.
Le lettere che Therese redige, in realtà non sono tante. È solo una, riscritta e meditata, ripensata e ritagliata. Quindi la lettera da oggetto misterioso e occultato diviene multiplo di se stesso: agente scopritore, ma anche elemento di occultamento del pensiero che si infrange tra le pagine appuntate e cancellate di parole e segni. La narrazione si muove come un’etnografia con cura e attenzione sulla fragilità di un pensiero delicato, ma concitato e urgente. Francesco D’Isa non percorre quel filone che viene orribilmente denominato romanzo filosofico, supera l’aggregazione e riesce con fluidità di scrittura a dare forma a un linguaggio potente e compatto che unisce un desiderio di lettura rapido a un obbligo di meditazione. I discorsi si muovono senza affastellarsi e confondersi, con un’incredibile linearità che – a uno sguardo più attento – diventa composizione di linee contrastanti e sovrapposte.

UN ROMANZO in cui ogni elemento è necessario quanto appassionante, libero da incastri di genere come da impalcature post-ideologiche, capace di mostrare la forza di una lingua che partendo da una protagonista femminile (non a caso) si rivela ancora in tutta la sua splendida bellezza e grazia di sguardo e forma.