In principio era Zumunda, il magico, sontuoso, regno africano da cui Eddie Murphy parte per cercare moglie nel poco sontuoso quartiere newyorkese di Queens, in Il principe cerca moglie (Coming to America, 1988). Gli sfarzi e i colori della Wakanda di Black Panther devono parecchio all’illuminato paese immaginario del film di John Landis. Nella stessa vena, è una festa per gli occhi anche The Woman King. Ma, diversamente da Zumunda e Wakanda, il regno di Dahomey è esistito veramente, nell’Africa precoloniale, come le feroci donne guerriere che lo difendono, le Agojie -un corpo militare d’élite, la cui origine – secondo un recente articolo del «National Geographic» è tracciata nel XVII secolo. Appena uscito nella sale americane, il film diretto da Gina Prince-Bythewood non è un documentario, e nemmeno un dramma storico, ma un oggetto raro nella Hollywood del terzo millennio, un film d’avventura in senso classico, con una storia originale (la sceneggiatura, scritta qualche anno fa, è di Dana Stevens) e una scala produttiva che oggi si associa quasi solo più a produzioni Marvel e DC, o a una manciata di autori molto potenti.
Arrivata sulla mappa al Sundance, con la commedia romantica Love & Basketball (2000) Prince-Bythewood aveva dimostrato la sua affinità per il cinema d’azione con Old Guard (2020) una produzione Netflix, piena di belle scene di lotta e venata di malinconico esistenzialismo, su un manipolo di guerrieri immortali capitanati da Charlize Theron. Woman King inizia in movimento, la dimensione visiva e narrativa in cui Prince-Bythewood sembra trovarsi più a suo agio- con una battaglia.

Oggetto raro nella Hollywood di oggi, rimanda al cinema d’avventura più classico

SIAMO NEL 1823. Il generale Nanisca (Viola Davis) non è immortale -e il suo corpo muscoloso, pieno di cicatrici e grondante di sudore viene guardato con disprezzo dalle mogli del re Ghezo (John Boyega, che si prende un po’ in giro), un harem di creature morbide e seducenti che trascorrono la giornata aspettando che il monarca scelga con chi di loro passare un po’ tempo, gelose della preferenza che lui manifesta per l’irsuta donna guerriera, la massima stratega militare del regno. Destinate al celibato, e scelte sulla base di prove fisiche che darebbero filo da torcere a un Delta Force, le Agojie vivono in un recinto a parte, temute e odiatissima dai guerrieri uomini delle tribù circostanti, gli Oyo in particolare, con cui Ghezo tratta merci e ogni tanto anche schiavi. Gli ambasciatori del mondo dei bianchi, aldilà del mare, sono infatti i trafficanti – ne vediamo solo un paio. Tra una battaglia e l’altra, la sceneggiatura di Stevens inserisce qualche dettaglio storico, un trauma segreto nel passato di Nanisca e persino una love story impossibile tra due ragazzi, appesantendo la narrazione qua e là.

MA, PER ESSERE un film che parla di razza e gender nel 2022, The Woman King è quasi miracolosamente esente dai predicozzi e dal vittimismo. Al meglio, infatti, quei temi sono assorbiti naturalmente nel flusso e nei ritmi del romanzesco. Come il cinema d’avventura di una volta. La forza del film nella fierezza delle guerriere, nella bellezza dei corpi, nel dinamismo intelligente della regia e nel piacere del racconto visivo.