The White Tiger (La tigre bianca), il travolgente romanzo di formazione di Arvind Adiga, è dedicato a Ramin Bahrani. Ed è dal momento dall’uscita del libro (un best seller quasi istantaneo, edito in Italia da Einaudi), nel 2008, che il regista di 99 Homes e Goodbye Solo, pensava di farne un film. Bahrani e Adiga erano infatti compagni di scuola alla Columbia University, accomunati da un rapporto molto forte con le loro culture d’origine (l’Iran e l’India) e dalla passione per il cinema.

La forza di quell’intesa poetica, estetica e culturale, nata in gioventù, attraversa come un brivido di effervescenza The White Tiger, il film di Bahrani prodotto da Netflix -un successo enorme sulla piattaforma (27 milioni di visioni il primo mese di programmazione), nominato all’Oscar per le miglior sceneggiatura non originale che, firmata da Bahrani, cattura alla perfezione lo spirito della pagina.

UN KOLOSSAL che si muove con il brio di un racconto picaresco, denso di uno humor feroce ed esilarante allo stesso tempo, The White Tiger è narrato in prima persona da Balram Halwai aka Ashok Sharma, un uomo d’affari di Bangalore che, in previsione di un viaggio indiano di Wen Jibao, scrive una mail al premier cinese chiedendo un incontro. Il mondo occidentale ormai alle corde, il futuro sarà dei «gialli e dei marroni» anticipa Ashok a Jibao, invitandolo (e invitandoci) a ripercorrere la sua odissea personale, da un villaggio poverissimo nella provincia di Dehli ai vertici dell’imprenditoria nella capitale della rinascita economica indiana – da servo di una ricca e imperiosa famiglia a leader della service economy. È la storia della sua fuga «dal pollaio» (la metafora del film) delle classi e delle caste basse, in cui rimangono intrappolati milioni di ragazzi meno scaltri e intraprendenti di lui.

Ragazzi che non sono una white tiger. Tigre bianca, una creatura rarissima: è così che un insegnante di passaggio al villaggio di Balram definisce il ragazzino con lo sguardo irrequieto e le mente vivace che gli sta davanti. Fatelo studiare. Ma – la mamma morta da anni e il papà sull’orlo della tomba causa tubercolosi da troppo lavoro – il futuro di Balram è nelle mani di una nonna pragmatica e un po’ avida. Così il consiglio cade nel nulla. Per sfuggire alla sgangherata casa da tè dove lavora (la sua famiglia appartiene alla casta dei pasticcieri), Balram va a Dehli e trova impiego come autista del figlio del padrone del villaggio.

ASHOK (Ajkummar Rao) è un giovane che ha assorbito parte dei modi e degli orizzonti meno tradizionalisti di quelli di famiglia negli Usa in cui ha studiato, e dove ha trovato anche una moglie, Pinky (Pryianka Chopra), un po’ troppo moderna per l’India anche lei. Inizialmente convinto di aver finalmente trovato il compimento della sua vocazione naturale a servire un padrone debole ma che gli piace, Balram cambia prospettiva mentre acquista fiducia e potere. Il primo passo è liberarsi del vecchio autista di famiglia denunciandolo come musulmano.

La sua espressione docile come quella di un cucciolo desideroso solo di far piacere al padrone, squarciata sempre più frequentemente da lampi oscuri di disillusione, Balram trova la sua incarnazione perfetta nell’ attore indiano Adarsh Gourav, al suo primo ruolo importante. La sua interpretazione così mutevole e piena di imprevisti da tenerti un po’ in ansia, come d’altra parte il personaggio. L’educazione di Balram verso la luce di una vita migliore è un’educazione colorata di tenebra: per uscire dal pollaio devi essere disposto a qualsiasi cosa.

NONOSTANTE lo humor, il romanzo di Adiga era spietato nella sua visione darwiniana dei rapporti di classe. Nel suo film (il più ambizioso sia per budget che per visione che ha mai realizzato finora – ma condotto con una naturalezza sorprendete, come se ce l’avesse avuto dentro da sempre), Ramin Bahrani non attutisce il colpo.