Leonardo da Vinci, “Studio di testa grottesca”, Oxford, Christ Church College

La fama europea della Celestina impose all’inizio del Cinquecento, alle scene più colte del continente, le vicende tragicomiche di una megera, «incomparable …, campeona de maldades, vieja, bruja y puta de toda la vida» secondo il ritratto offertone dal copione, firmato – pur fra le colte inquisizioni della critica moderna – da Fernando de Rojas: una decrepita intrigante che nelle parole di Parmeno, altro personaggio della macchina teatrale, s’impegnava in «sei lavori» («costurera, perfumera, maestra de hacer afeites y recomponer virgos, alcahueta y un poquito de hechicera») e che, sotto al velame del primo mestiere, nascondeva di fatto le sue altre, per niente onorevoli occupazioni. Amica insostituibile di studenti e sposi, di camerieri e abati, Celestina era solita accogliere in casa donne in incognito e uomini contriti, i quali «coi pantaloni sbottonati… andavano a piangere i loro peccati». Una ruffiana bell’e buona a cui dai palchi italiani – mentre si pronunciavano a memoria le commedie di Plauto e di Terenzio – avrebbero fatto eco vecchie non meno disinvolte, pronte a intrattenere il pubblico con spettacoli di bruttezza e furbizia, d’indecenza e immoralità.
Manca solo un catalogo tanto ridicolo di maschere, di amare matrone e serve affaccendate, un repertorio animato da Lene e Bette, da Aluigie e Artemone, nella ricca compagnia di volti cadenti convocati, per cura di Emma Capron, in una sala al primo piano della National Gallery, a Londra ancora fino 13 giugno: le si sarebbe invece accolte con mille moine e altrettante cortesie nella bella festa organizzata in omaggio a uno dei capolavori più singolari della pinacoteca, l’effigie, vizza e pretenziosa, di un’anziana senza denti, dipinta dal fiammingo Quentin Massys sul 1513 e passata alla storia sotto all’etichetta non certo lusinghiera di The Ugly Duchess.
La mostra a lei intestata, sottotitolo Beauty and Satire in the Renaissance, ha scelto infatti, con diligente cura filologica, di accostare al quadro d’ampio formato una famiglia numerosa di nonne e madri, eredi e discendenti, chiamando nel girotondo imbastito attorno a quel viso rugoso perfino amiche più o meno coetanee, secondo un carnet d’inviti aperto a una combriccola allegra di comari, provenienti da un lato e dall’altro delle Alpi.
È sicuro d’altronde che l’opera di Massys, la difficile cosmesi del volto, perfino la toletta capricciosa della bislacca eroina sulla tavola guardino – in un prestito insieme di mode e bizzarrie, di spiriti e affetti – a un disegno riferibile a Leonardo; invenzione di cui si ritiene oggi perduto il primo autografo ma che, come spesso succede col Vinci, s’intuisce grazie a una serie serrata di copie e derivazioni. A giudicare da altri schizzi del toscano dovette trattarsi di una delle sue «teste mostruose», dei musi grotteschi raccolti negli anni in sequenze strepitanti di facce e profili per mano di discepoli devoti e di amateurs appassionati: un catalogo a lungo interpretato, in consonanza evocatrice con le fonti, alla luce d’una indefessa passione disegnativa, del costume perseguito dall’artista d’intraprendere flâneries curiose, taccuino alla mano, lasciandosi attirare da dettagli magnetici e da un’umanità espressiva, viva; in realtà, un vero e proprio genere che poté radicare umori e stimoli nella cultura burlesca frequentata dal pittore, nel calendario d’impegni feriali a cui spesso dovette piegare il proprio cursus di cortigiano coltivato.
Un’ambiguità consimile, in fatto di funzione e di stimoli poetici, circonda del resto il dipinto di Massys: il comico travolgente emanato dalla figura si scontra col suo adeguamento, in termini formali e mercantili, ai canoni classici del ritratto, trasformando – almeno per un occhio contemporaneo – le fattezze caricate dell’attempata matrona in un ibrido manifesto di stoica dignità. Non a caso (la Capron è assai puntuale nell’offrirne un indice in catalogo), l’opera si è prestata a interpretazioni contrastanti, nonostante la possibilità di rintracciare altri modelli per la sua grottesca fisiognomica, tradotti in medium differenziati e manufatti eterogenei, come le stampe popolari, le miniature o i lavori di boiserie.
A fronte del lampante impaccio che nel Rinascimento riguarda la rappresentazione pietosa di un corpo femminile in decadenza (perfino un’icona da manuale come la Vecchia di Giorgione è stata convertita dal recente restauro in crudele caveat morale), non aiuta a decifrare il rebus neppure l’individuazione di un pendant per il dipinto, già segnalato in bibliografia e oggi presente alla National: l’immagine di un vecchio, retrò nelle scelte vestimentarie, il cui tracciato di grinze e nei, di occhiaie e gibbosità racconta tuttavia la storia di una vera esistenza, scevra di sottolineature umoristiche o di forzature satiriche. Comprova tale impressione il fatto che del quadro esista un probabile studio, un olio su carta conservato al Musée Jacquemart-André, o almeno un altro testimonio in grado di suggerire la presenza di un disegno originale da cui deriverebbero entrambe le creazioni giunte fino a noi: siamo cioè di fronte a un processo di rielaborazione, partito da un primo pensiero e focalizzato sul viso, sulle sue asperità dermatologiche, che lascia supporre un confrontamento diretto col dato naturale, secondo un andamento che ha a che fare più col ritratto che con le fantasie burlesche.
Nel ricostruire convincentemente il dittico (analoghe le dimensioni, identico il taglio, coesa la gestualità, uniforme perfino la balaustra sul limite inferiore delle tavole), la mostra propende, sebbene con cautela, per considerarlo uno scherzo fra umanisti, in cui a una fotografia pregnante – quella maschile, che sfugge comunque a precise identificazioni – verrebbe associata una «compagna» emblematica, intesa per ridicolizzarne l’aplomb serioso di uomo erudito secondo schemi tipici dell’humour rinascimentale.
Si tratta di una soluzione viabile ma che soprattutto si allinea alla rivalutazione novecentesca del comico come «fenomeno culturale» legato a ben precise esigenze delle comunità d’epoca moderna. Senza andare indietro a Bachtin e al suo Rabelais, si possono citare gli studi di Jean Toscan sul vocabolario «carnevalesco» diffuso nella poesia italiana del XVI secolo o le interpretazioni propense a decodificare la pittura settentrionale, da Bosch ai Breugel, nell’ottica di una saggezza intrisa di proverbi e buffe filastrocche; ma vanno anche menzionate le indagini di Diane Bodart e Francesca Alberti, tradottesi in una mostra recente, ospitata nelle sale di Villa Medici, in cui il riso si nutriva della linea delicata di ghiribizzi e scarabocchi. Proprio la coerenza con queste investigazioni impone l’attualità della mostra londinese: appuntamento che, se si ricollega pure allo sguardo femminista nell’affrontare la problematica considerazione della donna, del suo aspetto fisico nel quadro dei rinascimenti europei, non dimentica di reinserire riflessioni siffatte nelle strutture linguistiche care a quelle culture, letterarie e figurative, nel tentativo insomma di ricondurre jokes misogini, argutezze denigratorie al più ampio contesto della società cinquecentesca, tra Italia e Fiandre.
Non si lascia, d’altra parte, il museo, senza portarsi negli occhi la dolorosa solitudine della statuina, in legno di pero, con cui si chiude il percorso, un’opera del Victoria & Albert da attribuirsi a un anonimo tedesco: la fragile apparenza della sua silhouette, schiacciata dal peso degli anni, rinvia alle vecchiaie disperate di un Klimt o di un Hodler, caricando di sottesi freudiani la postura ieratica di una Venus frigida.