La piccola Wardi ha undici anni, è curiosa, vivace, brava a scuola, e vive in un campo per rifugiati in Libano. È attraverso i suoi occhi che il regista norvegese Mats Grorud racconta la tragedia dei palestinesi, nel suo primo lungometraggio d’animazione The Tower. Wardi è molto legata alla sua famiglia e soprattutto all’amato bisnonno Sidi. Quando Sidi, malato, le regala la chiave che portava sempre al collo – la chiave della sua casa in Galilea, abbandonata dopo il tragico esodo del 1948 – Wardi teme che il bisnonno abbia perso la speranza e comincia a porsi domande sulla storia della sua famiglia e sul futuro. Attraverso i racconti di tre generazioni ripercorrerà così la storia dei palestinesi dal 1948, l’anno della «naqba», la catastrofe, l’esilio forzato dalla Palestina a seguito della fondazione dello Stato d’Israele. Sarà un percorso doloroso, che le permetterà di recuperare una memoria preziosa, quella dell’identità del suo popolo. E di capire che Sidi, consegnandole la sua chiave in un simbolico passaggio di testimone, le ha trasmesso un’eredità di ricordi e speranza per il futuro. Una storia raccontata con sguardo sensibile e intenso, attento ai sentimenti e all’umanità dei personaggi, agli affetti profondi che li legano e rappresentano quel piccolo raggio di luce che, come dice la zia Hanan a Wardi, «bisogna cercare anche nel buio più profondo». Girato in stop–motion e animazione 2d, The Tower è un’opera che sta particolarmente a cuore al suo creatore. Il campo di Bourj el Barajneh, vicino a Beirut, dove è ambientato, è lo stesso in cui il regista ha trascorso un anno ventenne, lavorando come insegnante per i bambini in un progetto di solidarietà. Ne abbiamo parlato con lui al festival d’animazione Imaginaria, a Conversano, dove il film ha ricevuto un premio speciale.

Com’è nata l’idea di The Tower?
Nel 2001, quando ho vissuto nel campo di di Bourj el Barajneh ho fatto amicizia con tanti ragazzi palestinesi. Ho girato un documentario su di loro, con interviste sui loro pensieri sulla vita e sul futuro. Mi ha colpito il modo in cui raccontavano le loro storie, in un misto di arabo e inglese, a volte con poche parole per esprimere concetti complessi. Era molto poetico, intelligente e commovente. Così ho pensato di parlare di questo in un film. Poi il progetto è cresciuto, perché le persone nel campo si sentivano dimenticate, e la mia missione è diventata raccontare la loro storia al mondo. In Europa quando si parla della Palestina e di Israele molti dicono «Oh, è così complicato», e volevo mostrare che no, non lo è. Trovare una soluzione è difficile, ma guardare alla storia non lo è. I palestinesi sono in questi campi da 71 anni, sono stati cacciati dal loro paese nel 1948. Circa i due terzi della popolazione palestinese, quasi un milione di persone, sono stati costretti a lasciare le loro case, in un esodo di massa dalla terra che ora è Israele. E dopo tanti anni sono ancora nei campi profughi.

Perché hai deciso di fare volontariato nei campi di rifugiati?
Questo film racconta una storia generazionale e nasce da una storia generazionale di solidarietà, la mia. Mia madre era infermiera e quando ero piccolo partiva per lavorare tre, quattro mesi in Libano, durante la guerra. Fin dall’infanzia ho visto le foto dei campi e conosciuto le storie dei rifugiati. Quando avevo 12 anni ci siamo trasferiti al Cairo, perché mia madre ha lavorato lì per un anno, nell’ospedale palestinese. È stata un’esperienza forte. Era il periodo della prima Intifada, andavamo a Gaza, a Gerusalemme…in quel momento ho aperto gli occhi sul mondo e sulle vite degli altri. Tutto questo è stato con me fin da allora, rendendomi ciò che sono.

Perché hai scelto di raccontare la storia palestinese attraverso gli occhi di una bambina?
Prima di tutto perché ero interessato alla relazione tra la giovane e la vecchia generazione. Forse anche perché la realtà del campo è molto diversa da come immaginiamo. Si pensa che donne e bambine siano oppresse, indossino l’hijab, e volevo mostrare che non è così. Nel film ci sono personaggi femminili molto forti. Volevo rompere gli stereotipi, ritraendo le persone per ciò che sono.

Com’è il futuro per i bambini palestinesi?
Ho tre figli, e in Europa, quando i tuoi bambini crescono, il loro futuro è come una tela bianca. Puoi sognare di diventare ciò che vuoi. Non è così per i palestinesi. Per loro il futuro è molto condizionato dal passato, perché vivono ancora nei campi, non hanno diritti civili, non possono esercitare molte professioni. I bambini soffrono, questo limita tanto la loro vita. C’è un grande contrasto tra come la vita dovrebbe essere e com’è, tra l’innocenza dell’infanzia e il buio che la oscura.

La scelta dell’animazione in stop–motion?
Il mio background è di animatore di pupazzi. Nel campo creavamo cose per l’animazione con i materiali che avevamo, e allo stesso modo le persone costruivano le loro case, in questo mondo surreale e anche ricco di colori, di dipinti, di poster politici sulla storia palestinese. Ho scelto di utilizzare i pupazzi per la loro tattilità, che secondo me poteva ben rappresentare questa realtà.

Come hai scritto la sceneggiatura?
Ho avuto consigli da registi e sceneggiatori del team di produzione. E ho discusso molto la sceneggiatura con i miei amici palestinesi. Sono anche tornato in Libano per parlarne con persone anziane, per sapere se ciò che descrivevo era reale. Il film è basato su storie vere, volevo che corrispondesse alle vite delle persone del campo.

Questo è un film sulla speranza. Come la si può ritrovare? Hai trovato speranza nei rifugiati palestinesi che sono nei campi?
Il campo è un simbolo della tragedia dei palestinesi, ma anche della loro resilienza. Dopotutto, sono riusciti a sopravvivere. Anche se tutto è cupo per loro, sanno chi sono e di avere diritti, il diritto di tornare nelle loro case. Questo dà loro dignità. Tornare è una speranza. Le persone nel campo hanno molte speranze, grandi e piccole. Sognano di viaggiare, che i loro bambini possano crescere e avere un’educazione. Ora non hanno il potere politico, né militare, per poter tornare. Ma qualcosa di più definisce i palestinesi, ed è la loro identità. Sì, c’è speranza per le nuove generazioni, anche se è arduo trovarla in una condizione così buia. È una domanda difficile. Secondo un mio amico il solo fatto che uno straniero sia andato nel campo e abbia fatto questo film vuol dire che c’è speranza.

Che reazioni ha avuto il pubblico?
Molti hanno reazioni emotive abbastanza forti. Penso che abbiano sentito molto il dolore e la tristezza, e anche il lato più leggero di ciò che significa vivere ed essere umani. Credo che l’animazione abbia lo speciale potere di farci entrare in empatia con i protagonisti, di farci sentire un personaggio non come «l’altro», ma come qualcuno vicino a noi.