Il celebre motto, spesso accompagnato purtroppo alle calamità, è stato reso celebre dall’omonimo brano dei «Queen». In verità, ha avuto sì riferimenti amari. Quasi a dire, però, che le arti, alte o meno che siano, hanno una loro relativa autonomia e rispondono ad impulsi che trascendono la contingenza. La pandemia in corso del Coronavirus potrebbe, però, diventare l’eccezione.

A parte la pur utile posta di bilancio di 130 milioni di euro (che allarga un po’ la capienza del Fondo dello spettacolo, ma mantenendone i criteri di elargizione) voluta dal ministro Franceschini, i diversi appelli in favore dell’attività culturale finora sono stati ascoltati assai poco. Il riferimento è alla doverosa e per ora vana richiesta di un Fondo specifico, come hanno proposto dalle pagine del Corriere della sera Pier Luigi Battista e la rappresentativa struttura di Federculture. Ipotesi ulteriormente specificata da una lettera al governo degli assessori delle principali città italiane.

Tuttavia, sia il decreto governativo «Cura Italia» sia l’ultimo della serie dedicato ala liquidità delle aziende si rivolgono ad un perimetro troppo angusto per quello che concerne il lavoro culturale e lo spettacolo dal vivo. Il riferimento, infatti, è alle Pmi (Piccole e medie imprese), nel cui territorio si muove solamente una parte del settore.

In numerosissimi casi si tratta, infatti, di attività neppure provviste di partita Iva, sorrette dall’opera generosa di singoli o di gruppi. L’«economia politica» di tale universo, che è popolato da figure decisive per la creatività e pure per la stessa routine quotidiana, si regge sulla fatica viva.
Per sua natura intermittente: questione annosa, che tocca tanto gli ammortizzatori sociali quanto le pensioni. Non è necessario neppure sottolineare il delitto che si sta compiendo, senza nulla togliere agli sforzi dell’esecutivo nell’opera difficile di contrasto del virus e dei suoi effetti collaterali.

Ciò che vediamo e sentiamo al cinema o a teatro o nei concerti di sovente si basa su di un’attività fatta da e di «prototipi». Non tutto è industria o apparato solidamente insediati, con avvocati e commercialisti al seguito. Dall’antica Grecia in poi le arti hanno avuto una loro fisionomia eccentrica e diversa. A meno che non si voglia cedere alle tentazioni cresciute nell’era liberista del pensiero unico. Omologato e seriale.
Insomma, sarebbe opportuno davvero un provvedimento ad hoc, discusso con le categorie interessate.

Tra l’altro, stando alla lettera degli attuali provvedimenti, è certamente escluso l’enorme patrimonio del «terzo settore», nel quale naviga una cospicua quota delle intraprese in causa. Bizzarro. La normativa dell’ultima stagione rende la vita difficilissima al mondo del non profit, costituito da associazioni talvolta di straordinario livello. Ora, perché dimenticarsene?

Non si contano più le offerte di film e di serie televisive extra-abbonamento di Sky o di Netflix. Persino (pericolosamente) in luogo delle proiezioni in sala. Sarebbe curioso opporre resistenze inopportune o passatiste. Ciò non toglie che, prima o poi, il contagio diminuirà e permetterà una relativa ripresa della vita civile. Vogliamo abituarci a fare a meno del cinema-cinema e dello spettacolo dal vivo?

Tra l’altro, chi non ha la pay-tv deve o dovrà accontentarsi dei fluviali palinsesti generalisti? Sulle pagine de il manifesto è stato pubblicato lo scorso primo di aprile un appello per la riapertura delle librerie. Già. Con il rispetto dovuto, perché le tabaccherie devono stare aperte e invece le librerie no? È il perenne desiderio dell’ultima sigaretta di Zeno?