C’è ancora amore tra gli ultimi di noi esseri umani, specie quasi estinta a causa delle spore di un fungo parassita che ci trasforma in mostri muffosi e assassini. Ma si tratta di affetti destinati ad una dolorosa, troppo rapida fine, senza una dialettica romantica tra amore e morte, perché in The Last of Us Parte II un Eros folle di dolore si maschera da Tanathos infliggendosi un suicidio infinito.

La nuova opera di Naughty Dog per PlayStation 4 è soprattutto questo, una raccolta struggente di storie d’amore sull’impossibilità di amare all’ombra della fine del mondo, laddove è l’odio il sentimento vittorioso.

Eppure persino in tanta tenebra, per pochi teneri attimi, questi amori brillano di una loro piccola, ardente dolcezza, illudendoci che forse non «tutto trascorre e muore» tranne la rabbia e il rancore. The Last of Us Parte II prova quindi a consolarci, indurci a sperare durante il suo lungo e terribile viaggio, tuttavia è durante la quiete diffusa, solo ingannevole delle sue dilatazioni più liriche, che germogliano i semi della prossima, devastante tragedia.

Tornano dopo qualche anno Joel ed Ellie, lui rotto dal rimorso e da un senso di colpa inespresso di dimensioni atlantiche e lei ormai donna, innamorata della coetanea Dina in quello che, almeno nelle rappresentazioni mainstream ma non solo, è uno dei rapporti affettivi omosessuali raccontato con più amorosa naturalezza e, proprio per questo, avversato da orde di omofobi che hanno riversato la loro ottusa cattiveria in rete.

Ira implacabile

Tutto si infrange nel più traumatico dei modi dopo poche decine di minuti dall’inizio del videogame, precipitando il giocatore in una storia di vendetta dalla rara potenza patetica, una ultra-violenta epopea che nel contempo urla tutta la sua non-violenza sottoponendo il giocatore a drastiche mutazioni del punto di vista, «giochi di ruolo» che dapprima rifiutiamo, atterriti e inorriditi, ma dei quali si intuisce per gradi il significato etico, una profonda filosofia morale.

Ci sono tanti modi di uccidere in The Last of Us Parte II, ma è difficile provare un liberatorio piacere ludico nell’esercizio virtuale dell’assassinio come può succedere in tanti altri videogiochi, perché sebbene alcuni nemici siano davvero malvagi, assai peggiori di qualsiasi mostruoso mutante fungiforme, forse nessuno è peggiore di noi che giochiamo, alimentati dall’ira implacabile di una duplice vendetta.

Cadaveri fatti a Pixel

The Last of Us Parte II ci fa considerare con una forza persuasiva molto drastica, quasi inedita, le conseguenze di uccidere in un videogioco, restituendo a pixel intesi per esserci nemici un’esistenza che si esprime attraverso un nome, una personalità, un passato. Tramite animazioni eccellenti dal realismo disturbante, diamo la morte a uomini e donne spesso solo confusi, spaventati, manipolati e, per questi motivi, aggressivi; lasciamo a terra cadaveri con il volto deformato dal dolore mentre i compagni chiamano invano il loro nome, ignari che presto uccideremo anche loro e i loro «maledetti» segugi, con un coltello, una bomba molotov, un ascia, un freccia, una fucilata in faccia, un’artigianale mina di prossimità.

L’azione più violenta, comunque mai scervellata ma strategica, è tuttavia diluita dall’esplorazione e da lunghi segmenti di poetica elegia.
Esplorando zone opzionali ma fondamentali per alimentare l’atmosfera del gioco e la narrazione ambientale, recuperiamo utili e rare risorse per assemblare il nostro armamentario mortale, d’altronde si tratta di sopravvivenza non di «sparatutto» o «azione frenetica».

Seattle e oltre

Durante questo lungo pellegrinaggio attraverso Seattle e oltre trascorriamo per scenari magnifici, panorami dalla gelida bellezza che sconvolge e meraviglia, sussurrandoci con il suono del vento tra i ruderi di una civiltà decaduta l’indifferenza ancestrale della natura per il dolore e la grandezza dell’essere umano.

Ci sono anche luoghi bui e terrificanti da puro «horror», sotterranei deformati dalle escrescenze putride del fungo «cordyceps» e abitati dalle persone corrotte dall’infezione, ma gli ambienti di The Last of Us Parte II, i suoi boschi innevati o verdeggianti, i palazzi collassati sepolti dai rampicanti, i musei in rovina celati da nuove selve, le acque ferme o scroscianti e i vasti prati mossi dai venti, funzionano come la cornice amena anche se «ossianica» di una narrazione disperante, la cui malinconica contemplazione diventa catartica, consentendoci di smarrirci per pochi attimi di quieta astrazione nella decadente e spietata grazia del panorama.

The Last of Us Parte II non è solo un prodigio tecnologico ma estetico, la cui realizzazione ha coinvolto in un lavoro lungo e arduo (magari troppo, hanno rivelato alcuni dipendenti di Naughty Dog costretti a spossanti sessioni lavorative) centinaia di persone; un capolavoro scritto, diretto, musicato, programmato e recitato con straordinaria coerenza artistica, un videogame che dimostra in maniera non troppo diversa da Death Stranding che il coinvolgimento emotivo può essere un valore distintivo del videogame oltre l’intrattenimento puro, non solo nell’ambito di ardite e sperimentali invenzioni indipendenti.

Complici

Ci sarà un momento durante il quale non vorremmo «premere quel tasto» mentre il controller rischia di caderci dalle mani tremanti, vorremmo invece chiudere gli occhi, urlare a Ellie di fermarsi, di placare la furia vendicativa della quale siamo stati complici e non riuscirci amplifica la nostra sofferenza. E in questo attimo di afflizione, di rifiuto, si rivela uno dei significati più alti dell’opera di Naughty Dog, ovvero che potrebbe esserci ancora tempo per la compassione e l’empatia, persino in fondo ad un inferno dantesco, ghiacciati nel Cocito tra i peggiori traditori dell’umanità.

Storia angosciante dall’epica sanguinaria di due donne eccezionali nel bene e nel male, con la loro furia implacabile e smisurata volontà, The Last of Us Parte II lascia una cicatrice in chi lo esperisce, permanendo con dolorosa passione nella memoria, continuando a turbare con la sua brutalità, la sua bellezza e la sua terribile verità, appannando, per qualche tempo, altri videogame anche di valore.

Finito il «gioco», ormai solo più ricordo di una grande avventura consumatasi tra micidiali colpi di scena, rabbia, lacrime e incubi, vengono a mancare le parole, restiamo soli, senza musica, spegniamo la console con un misto di sollievo e immediata nostalgia per questa maestosa, corale e intimistica opera d’arte sull’Orrore.

Federico Ercole

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Un cuore di tenebra post apocalittico

Cos’è la verità? Sono le parole raccontate, i fatti vissuti, ma basta cambiare prospettiva e, con la stessa sinuosa danza del serpente, tutto cambia, tutto muta, quello che era giusto ora appare sbagliato, i buoni assomigliano pericolosamente ai cattivi, le ragioni, anche quelle giustissime, hanno la fallacia della rabbia, del dolore e, perché no, quelle della vendetta. Last of Us part 2, uscito con un record di vendite, il 19 giugno, racconta una storia di menzogne e apparenze, non sulla bocca dei personaggi, come nello struggente finale del capitolo precedente, ma nelle loro azioni, nei gesti che ingannano lo spettatore/giocatore, orfano di un occhio super partes come spesso (sempre?) accade nelle avventure pad in mano.

Nella storia di Ellie, Joel e della loro nemesi sotto forma di una ragazza, nata e cresciuta con gli affetti e certezze dalla parte sbagliata del muro, emerge prepotente e deflagrante l’assenza di Dio: è una terra di uomini e lupi, di assassini e carnefici, di vendetta che si attorciglia come un uroboro intento a cannibalizzarsi.

Così facendo la storia di Neil Druckmann e Halley Gross spiazza e confonde, allo stesso modo del capolavoro di Alan Moore, The killing Joke, nel quale gli archetipi di giustizia e malvagità, Batman e Joker, ridono come vecchi amici in un istante interminabile e irripetibile, lì lì sul punto di essere spezzato dalle sirene dalla polizia.

Ci si trova, giocatori, in un mondo dove il libero arbitrio gioca un ruolo preponderante, l’uomo diventa un piccolo Dio di un microuniverso, un villaggio, una famiglia, un viaggio solitario, pronto a scontrarsi con altri universi, nel buio di una ragione cieca, di una sopravvivenza agognata e celata nell’alibi di una fede, di un affetto perduto o di un gesto che ha spazzato non solo chi amavi ma forse la razza umana. Last of of us part 2 non è un gioco horror, neanche ci assomiglia pur se dissemina il suo percorso di creature ributtanti o di pericoli.

Last of us part 2 è un gioco che, come in Apocalipse now di Francis Ford Coppola, ti mette a confronto con la tua anima più nera, sia si tratti di una foresta piena di vietcong che una Seattle devastata dall’apocalisse. I luoghi rivestono un ruolo importante, allo stesso modo della storia, soprattutto quando segui i personaggi che, alla disperata ricerca di oggetti utili per sopravvivere, trovano tracce spente di vita umana, le vestigia di pelle putrefatta e ossa accompagnate da lettere che, per citare l’Ungaretti di Veglia, sono «piene d’amore», anche nell’orribile morte.

Un po’ come The Vanishing of Ethan Carter, padre simbolo dei walking simulator, ci si trova faccia a faccia con i fantasmi di una tragedia, diafani, irreali, portati al nostro orecchio da aedi di inchiostro e muffa, mischiati a città enormi e fantasma, vuote, ma infestate da viventi che agonizzano quel poco che basta prima di essere anch’essi, prima o poi, sangue e ricordi.

Per questo gli stessi mostri che ammazziamo con la grande abilità da stealth risultano strazianti dolori, non boss o creature da abbattere soltanto, ma esseri umani che, magari in un testamento nascosto sotto il letto, abbiamo scoperto essere un padre, una madre o un figlio, mutati nella speranza vana di un domani. Su questo Neil Druckmann e Halley Gross ci giocano, scorrettamente e subdolamente, soprattutto quando le carte in tavola sono mostrate ma tutto si tramuta nel Rashomon di Kurosawa o nella reincarnazione più yankee con Meg Ryan, Il coraggio della verità, e allora basta spostare lo sguardo, cambiare angolazione per riscrivere non solo la storia, ma anche le nostre emozioni, sporcandoci di vergogna e disperazione per una scelta fatta, per aver spezzato l’esistenza di un cattivo che ora tanto cattivo non sembra o almeno non più di noi.

Se Last of us era un viaggio di un padre e di una figlia mai concepita attraverso la bugia di una speranza, la parte 2 è la speranza che supera la bugia, la verità che infrange il velo di Maia e fa rinascere i personaggi, conosciuti, mai visti, come uomini a tutto tondo, fragili, insicuri, forse mai così veri in un videogioco.

L’happy end a suo modo arriva, non nella maniera che i fan si aspettavano, ma nella consapevolezza di un barlume di speranza, questo sì vicino alla luce di un Dio che si presenza nei gesti inconsapevoli di una carità cristiana di perdono e redenzione. Last of us part 2 resta fedelmente e inscindibilmente il tassello finale di un unico gioco, senza curarsi né di chi l’ha odiato senza capirlo né di chi professa una storia conclusa nel precedente gioco.

Creare un’opera d’arte che ti sporca e ti avvolge non è facile, solo così forse possiamo guardare alla nuova generazione di console, con il pezzo più pregiato e maturo di questa PS4. Non chiamatelo però gioco dell’orrore e non aspettatevi un Resident Evil. Dire di più equivarrebbe a rovinarvi il viaggio, siate Ellie, Joel o solo un viandante che si accinge a vivere questa straordinaria storia.

Andrea Lanza