Si è concluso a Parma il lungo tour europeo di Aung San Suu Kyi, il primo che l’ha portata anche in Italia dopo 40 anni. Noi l’abbiamo incontrata.

Può fare un bilancio del suo ennesimo viaggio in Europa?

Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia, ed in altri, come il vostro, dove mancavo da decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali.

Quando parla di uomini dai profondi principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare?

Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli.

La paura è, secondo lei, una delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso?

Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico.

Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con lei e l’hanno anche duramente criticata.

Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisiti e musulmani e non la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare ed ancora oggi vivono in campi profughi.

È,, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza.

Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo ad istigare altra violenza e se le mie parole potrebbero essere fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate.

Quale è, quindi, la soluzione che propone?

Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo; è semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale.

Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è una strada a vicolo chiuso.

È, per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della Birmania, ma anche con il Bangladesh.

I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più importanti da emendare, come il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in caso di necessità, prendere il comando del governo?

Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Per il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo.

Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi?

Non voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò presidente e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle guerre civili e emendare la costituzione.

Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche.

Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare. Sotto lo SLORC prima e l’SPDC dopo, non c’è mai stata libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai ottenere il 100% di ciò che si chiede.

Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di 100 prigionieri politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di 2.000. Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico?

Certamente. È, per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le Forze Armate, ndr) che si oppongono alle riforme.

[do action=”quote” autore=”Aung San Suu Kyi”]«Lo ripeto, ho sempre avuto grande rispetto per chi indossa un’uniforme»[/do]

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Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon nel 1988 ed a cui ero presente, ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Queste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro che non hanno capito nulla delle sue idee o è lai che ha cambiato le idee?

Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anche io mi stupisco di come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per i militari. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto grande rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza.