Il primo atteso e sinora troppo a lungo procrastinato colpo di fulmine della competizione ufficiale arriva finalmente con The Homesman, opera seconda cinematografica di Tommy Lee Jones dopo l’interessante e acclamato Le tre sepolture (ma non contiamo volutamente le regie televisive).

Western risolutamente sui generis, nel senso che rispetto al canone si concede un’abbacinante libertà formale ed espressiva, il film di Lee Jones si presenta sin dalle primissime inquadrature come un’opera di straordinaria complessità politica e formale.

L’attore e regista, prodotto con grande lungimiranza da Luc Besson che da cineasta sempre discutibile rischia di assurgere al ruolo di produttore da tenere  d’occhio, traccia una parabola di straordinaria complessità nel cui arco recupera allo sguardo il rimosso femminile della conquista del West.

Tratto dall’omonimo libro di Glendon Swarthout, autore anche del romanzo dal quale Don Siegel ha trattoThe Shootist – Il pistolero, il canto del cigno di John Wayne e del western alla fine degli anni Settanta, Tommy Lee Jones firma un film radicale e scorbutico, ai limiti dello sgradevole addirittura, ma senza alcun debito nei confronti del canone western, sia esso classico o revisionista.

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The Homesman è prima di tutto un film storico. Il territorio arido, brullo, battuto dal vento e divorato dalla polvere, è il controcampo della nascita di una nazione e, rilanciando la centralità negata e rimossa della presenza femminile, il regista e attore mette in luce, con grande lucidità, il femminicidio domestico come rovescio complementare del genocidio dei nativi americani.

Le donne, infatti, cristallizzate nella cornice asessuata del puritanesimo di matrice europea, ridotte sempre alla metafora del giardino da far fiorire grazie all’operosità del maschio, quindi la donna come segno e correlato di un territorio da occupare, fisicamente, ideologicamente e politicamente, si rivelano nel film di Tommy Lee Jones come corpi renitenti all’ordine dominante del discorso maschile. Sacche di resistenza.

Con stupefacente precisione politica, Deleuze e Guattari non sono affatto lontani, The Homesman mette in scena una frattura nei codici del linguaggio che oppone donne e uomini.

Il linguaggio, infatti, anch’esso un territorio, non può essere occupato ma solo condiviso per potere funzionare come valuta di una presenza in grado di articolare il nuovo o, addirittura, il futuro.

E Tommy Lee Jones è così acuto da mettere in scena le donne del suo film, tutte, non solo la magnifica Hilary Swank, come portatrici di un discorso altro, e assolutamente non conciliato. Un discorso alieno, ovviamente non conciliato (i terribili flashback di Miranda Otto o di Sonja Richter sono estremamente indicativi della violenza ammessa nel perimetro del territorio domestico…).

La follia, quindi, proprio come nel cronenberghiano metodo pericoloso, è la discontinuazione, l’interruzione, di un regime, di un potere e non è un caso che le donne “pazze” debbano essere allontanate dalla minuscola comunità che fatica a nascere nella presenza del maschio. Il linguaggio afferma, non dubita. Non interrompe.

Come in Missione in Manciuria di John Ford, probabilmente il film più prossimo politicamente a quello di Tommy Lee Jones, l’isteria è la voce di coloro che non hanno voce e che rinunciano a utilizzare la lingua e i codici dell’oppressore.

Mary Bee Cuddy (Hilary Swank) possiede molti tratti in comune con la dottoressa Cartwiright di Missione in Manciuria. Autosufficiente, dotata artisticamente ma costretta a vivere senza musica che suona in assenza su un tappetino che riproduce una tastiera di un pianoforte, lucida al punto da considerare il matrimonio e la maternità come mere appendici del processo di colonizzazione del territorio, anche se lacerata da una straziante mancanza d’amore, assume su di se il compito di condurre in esilio le donne spezzate, interrotte, che non hanno retto l’urto dell’espansione delle frontiere.

Accompagnandosi a un disertore (lo stesso Lee Jones) che salva dall’impiccagione, s’inoltra in un viaggio allucinante attraverso le nude pianure del Nebraska verso il Missouri, viaggio tormento dai lamenti delle donne donne incatenate alle pareti della carrozza che evocano la strazio dei dannati di Dante.

Probabilmente sono questi i momenti più alti di un film assolutamente sconcertante, potentissimo.

Come in un inferno beckettiano, la misera carovana di quattro donne e un uomo, ridisegna gli equilibri di una società patriarcale. Viaggio iniziatico e allucinante, giocato sul contrasto dei campi lunghissimi, e i brucianti primissimi piani interiori, come in una sorta di montaggio fantasma, il film è un viaggio nel controcampo degli Stati Uniti. Inevitabile pensare a quanto sia lontano il mondo di Stagecoach (Ombre rosse).

Film lacerante e sempre in controtempo rispetto ai codici della narrazione classica, basti pensare all’apparizione di Tim Blake Nelson, che sembra provenire direttamente da As I Lay Dying di James Franco, tanto è coperto di pustole e croste, si concede nel finale un omaggio alla chiusa di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, con Tommy Lee Jones che balla ebbro di follia nella notte mentre il nome di Mary Bee Cuddy, scritto sull’acqua, ritorna all’acqua nell’indifferenza di un mondo di maschi che corre alla conquista del West.

The Homesman, con ogni evidenza, è il primo film di questa competizione canneense che merita a pieno diritto il proprio posto in concorso.