Il nuovo anno ha portato una piccola rivoluzione in casa The Bad Plus. Per un trio piano-basso-batteria cambiare il pianista non è certamente un dettaglio, neppure per un gruppo come The Bad Plus che si è sempre fatto portavoce di una concezione anticonvenzionale del trio jazz, basata su criteri di totale equivalenza tra i vari membri.
Sta di fatto che il trio nato a Minneapolis ad inizio del millennio e formato fin dall’esordio dal pianista Ethan Iverson, dal contrabbassista Reid Anderson e dal batterista Dave King – un gruppo che ha per certi versi riscritto alcuni dei canoni di questo organico grazie ad un’indefessa attività live e ad una quindicina di album incisi nell’arco di diciotto anni di attività – ha cambiato ad inizio 2018 la propria line up, ingaggiando il pianista afroamericano Orrin Evans al posto di Iverson.

Con questa nuova formazione hanno già inciso un album, Never Stop II, e si sono presentati mercoledì scorso davanti al pubblico romano.
Una rappresentanza piuttosto sparuta di pubblico a dire il vero, non più di un centinaio di persone, che ha verificato il nuovo «assetto» approfittando dell’appuntamento fissato nel cartellone della rassegna Isola di Roma Jazz & Blues dell’Isola Tiberina. Diciamo subito che il concerto romano ha rassicurato tutti sulla buona salute del trio e sul permanere di uno schema creativo basato sull’empatia, sull’attitudine potente e originale del corredo ritmico, su un apporto collettivo al materiale compositivo.

Il pianismo di Evans – l’ha certificato un brano come Hurricane Birds che apriva la tracklist dell’ultimo album ed è stato piazzato nella parte centrale, nevralgica, del concerto romano – si inserisce con molta circospezione e allo stesso tempo con grande naturalezza nel granitico blocco ritmico costituito dalla coppia Anderson-King. Orrin Evans ha avuto l’intelligenza di attenuare un poco la propria vocazione post-bop e di sottolineare invece le proprie derive più esuberanti e bizzarre.
1983 Regional All-Star , con la sua cadenza intricatissima sia dal punto di vista delle dinamiche che del disegno ritmico ha confermato la permanenza di un dialogo in divenire, di uno scrigno aperto che dal vivo si lascia fertilmente depredare, oltre alla buona sintonia tra le tre personalità strumentali.

In brani come Safe Passage e soprattutto Traces, anch’essi ricavati dalla scaletta dell’ultimo lavoro, hanno avuto modo di emergere la sapiente, geometrica scansione del contrabbasso di Anderson e il fenomenale lavorio su pelli e piatti di King. La tattica di questo trio statunitense ha sempre fatto leva anche su un’accurata e bizzarra scelta dei brani da reinterpretare. I loro standard sono spesso ricavati dal repertorio rock o dalla club culture (lo facevano già quando ancora questa, nel jazz, non era diventata prassi fin troppo inflazionata). Non poteva mancare neanche a Roma dunque una riproposizione di questo tipo: così il bis di un set trionfale è stato quel Flim, già inserito nell’album These Are The Vistas del 2003, e «rubato» alla penna di Richard D. James, in arte Aphex Twin.