Gianrico Carofiglio si è rimproverato (il 19 marzo su la Repubblica) di aver pensato e scritto stupidaggini all’inizio dell’epidemia. Non so se ha scritto stupidaggini, immagino che avrà pensato quel che abbiamo pensato in molti, e in fondo pensiamo ancora: che la malattia e il nostro modo di affrontarla (giusto o sbagliato che sia) butta a mare la nostra civiltà.

Abbiamo cominciato col lasciare che accadessero, a poca distanza da noi, atrocità infinite; poi a dimenticarle completamente; poi a guardarci in cagnesco; poi ad accettare che i nostri cari (come dice Johnson) muoiano abbandonati e soli; poi a considerare la morte come un brutto incidente statistico, togliendole ogni sacralità e conforto; e infine che anche quelli che consideravamo (e punivamo come tali) i ‘buoni’, cioè quei volontari che in pieno inverno, su navi scarsamente attrezzate, perlustravano i mari in cerca di naufraghi da salvare, gettino la spugna.

Per non parlare di quello che succede dentro le case, che ricorda i topi lasciati in laboratorio in spazi ristretti e che dopo un po’ cominciano a mangiarsi a vicenda – tanto che il papa ha dovuto ricordarci di baciare e carezzare quelli che condividono le nostre stanze chiuse.

Di tutto questo – amore, affetto, pietà, comunanza, lungimiranza – era fatta, è fatta ancora la nostra civiltà. Malgrado odiatori, insultatori, attentatori, la nostra civiltà era, è ancora, esattamente questo.

Durante la peste di Firenze, Giovanni Boccaccio scrisse un libro in cui raccoglieva le sventure e venture della civiltà fiorentina per tenere il testimone e consegnarlo alle generazioni future. Quel libro viene oggi riletto famelicamente, perché parla della peste, del rifugio dalla peste e di come dieci giovani si raccontavano vicendevolmente delle storie, nelle quali si mostrava con tutte le sue bizzarrie, disgrazie, beffe e sorprese il mondo temporaneamente oscurato. Ma noi, che testimone lasceremo?

Tutti si affannano a distrarci con divertimenti effimeri e virtuali e a raccomandarci di trarre insegnamento dall’isolamento (questo dice giustamente Carofiglio alla fine), ma che insegnamento possiamo mai trarre dal disinteresse per tutto quello che non riguarda strettamente la nostra sopravvivenza? Un tale forsennato disinteresse da farci mostrare i denti contro le persone che se ne preoccupano, e ancora di più verso quei paesi che esitano a disfarsi del fardello fragile e prezioso che abbiamo chiamato, e chiamiamo ancora, civiltà. Forse questo dobbiamo imparare: a usare i nostri denti per tenere stretti gli stracci e i brandelli del mondo che affoga insieme ai naufraghi del Mediterraneo, per poterli un giorno, speriamo presto, raccogliere sulla spiaggia e ricucire amorevolmente, pietosamente, prima di indossarli di nuovo.