ono contenta che sulla questione dell’accesso all’università si apra un dibattito pubblico. Sinceramente non se ne può più di decisioni prese nel segreto delle stanze ministeriali da ogni nuovo ministro. Sui test di ammissione negli ultimi anni si sono affollate scelte a volte contraddittorie, spesso immotivate.
Prima l’annosa questione se dovesse esserci il bonus (il punteggio) relativo al percorso scolastico (prima sì, poi no, poi sì ma poco). Segno triste di una mancanza di fiducia nel sistema scolastico. Poi la scelta di far sostenere i test a metà dell’ultimo anno di studi. E non mi pare sia stata una scelta saggia: ha comportato non solo la diminuzione del numero dei partecipanti ai test ma anche quello dei «vincitori», forse per la difficoltà di prepararsi adeguatamente in un anno nel quale si sostiene anche un’altra difficile prova. Infine i test sono diventati sempre di più una corsa ad ostacoli per studentesse e studenti.

È francamente imbarazzante aver assistito, dopo l’ultima prova, al profluvio di dichiarazioni di esponenti della comunità scientifica e medica italiana. Tutti accomunati dalla considerazione che loro non ce l’avrebbero fatta a superare i test di ammissione alla facoltà di medicina. Una concordanza che deve far riflettere. Su più livelli.

Il primo, quello immediato, della qualità e attendibilità dei test stessi. Che spesso attengono a temi e argomenti che vengono affrontati all’università in anni successivi al primo, ai quali evidentemente chi esce da un liceo non è in grado di dare risposte scientificamente calibrate.

Per non parlare poi di quelli di cosiddetta «cultura generale». Che fa pensare che forse occorra ripensare il concetto di cultura generale, quel patrimonio di sapere «in comune» che dovrebbe appartenere a tutte le cittadine e cittadini al di là della loro posizione sociale e lavorativa, insomma quel che rende un paese una comunità, linguistica e non solo. E forse proprio perché non sappiamo più cosa sanno del mondo le nostre ragazze e i nostri ragazzi e nemmeno sappiamo come chiederglielo, ci rifugiamo nell’abitudine del quiz nella quale prevale la freddezza e la logica dell’indovinare piuttosto che quella del conoscere. Insomma quale sapere verificano queste prove di ammissione, e come? E d’altra parte come sarebbe possibile verificare con un quiz la propensione a un mestiere, a una professione?

Perciò mi sembra un’apertura di dibattito importante quella avanzata dalla ministra Giannini. Che propone di verificare sul campo, nel primo anno di studi, non solo le competenze di base ma anche la capacità di sostenere quel corso di studi. Mi sembra una proposta razionale e mi piacerebbe che se ne studiasse la fattibilità.
So che ci sono a questo proposito perplessità. Non solo sulla sostenibilità delle strutture universitarie ma anche, la dico come l’ho sentita rimbalzare da più parti, sul fatto che in questa maniera sarebbero favoriti i figli degli universitari. Ma esiste legge, norma, pratica a prova di furbi?

E allora proverei a ragionarne a partire dalla convinzione che l’intera filosofia del numero chiuso come è stata praticata non funziona e non risponde neppure a una seria programmazione delle professioni mediche. Continuare così significa non solo bruciare legittime aspirazioni e ridurre opportunità per i giovani ma anche perpetuare un’ingiustizia insopportabile.