La gestione dell’epidemia è in mano soprattutto alle regioni, che spesso hanno fatto scelte diverse durante l’emergenza. L’ordinanza lombarda sull’obbligo di indossare mascherine è solo l’esempio più recente. Sui test diagnostici, l’ultima diatriba riguarda la tipologia di test da effettuare. Alcune regioni potenziano la capacità di analizzare i tamponi; altre stanno optando per una tipologia diversa di test, quelli “sierologici”.

Si tratta di due tecniche diverse di individuare le persone contagiate. Il “tampone” scova il virus nelle mucose delle vie respiratorie. Con i test sierologici si cerca nel sangue la presenza degli anticorpi contro il coronavirus sviluppati dal sistema immunitario: se ci sono gli anticorpi, significa che l’infezione è avvenuta. Dato che gli anticorpi rimangono nel sangue molto tempo dopo l’infezione, il test permette di scoprire chi ha avuto il virus anche a mesi di distanza dall’infezione. Infatti è lo strumento più adatto per capire, a epidemia finita, quale percentuale della popolazione è stata contagiata.

Nessuno dei due è infallibile. Il tampone può risultare negativo perché la carica virale è troppo bassa. Oppure perché, nella seconda fase della malattia, il virus scende nelle vie respiratorie più basse dove il tampone (un lungo “cotton fioc”) non arriva.

Anche il test sierologico ha i suoi problemi: può dare “falsi negativi” perché nelle prime fasi dell’infezione l’organismo può ospitare il virus ma non aver ancora sviluppato gli anticorpi. Inoltre, potrebbe rilevare la presenza di anticorpi contro altri coronavirus comuni, come quelli del raffreddore, e dare un risultato “falso positivo”.

Con una circolare del 3 aprile, il ministero della Salute ha stabilito di utilizzare per le diagnosi solo i test basati sul tampone: quelli sierologici «non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di Rna virale dai tamponi nasofaringei», ha scritto il ministro Speranza su indicazione degli esperti del Comitato Tecnico Scientifico.

Ma il dibattito intorno alla scelta del test migliore non coinvolge solo gli esperti. Tra i sostenitori di un approccio o dell’altro ci sono esponenti politici, governatori regionali e persino manager d’impresa, come l’ad della Ducati Claudio Domenicali, che in vita loro non si sono mai occupati di diagnosi virologiche. I due test, infatti, corrispondono a due approcci diversi nella risposta all’epidemia.

Volendo semplificare molto, il tampone serve soprattutto a scoprire chi si sta ammalando, mentre il test sierologico serve a scoprire chi sta guarendo (nei casi dubbi si effettuano entrambi).

Perciò, il tampone permette di rispondere all’epidemia sul piano sanitario, con l’isolamento dei positivi. Il test sugli anticorpi rappresenta una risposta sul terreno dell’attività economica: le persone guarite possono tornare a una vita normale senza rischi, anche a epidemia in corso, e far ripartire fabbriche e uffici. Semplificando ancora di più, il tampone è per chi aderisce alla campagna #iorestoacasa, il test sierologico è per chi preferisce slogan come #milanononsiferma.

Ovviamente, sarebbe bene effettuare tutti i test che servono, indipendentemente dalla tipologia. Soprattutto per gli operatori sanitari a cui spesso sono negati tutti e due. Ma l’emergenza ha mostrato che nessuna regione ha capacità diagnostica illimitata e che è necessario indirizzare le poche risorse a disposizione con oculatezza. A parole, ogni regione difende la sua strategia sulla base di evidenze scientifiche. Ma, come spesso avviene, dietro scelte apparentemente “tecniche” si nascondono decisioni politiche.