Il dibattito sugli anni ’70 riattivato dagli arresti in Francia di ex membri di Brigate Rosse, Pac e Lotta Continua ha eluso alcune questioni di fondo: come si fanno i conti con il passato? Chi li deve fare? Con quali strumenti?

Il primo indispensabile fattore che materializza un processo così articolato è la ricerca storica che opera la ricostruzione di fatti, contesti politico-sociali ed internazionali. Alla società nel suo insieme (istituzioni, partiti politici, organizzazioni sociali, mondo della cultura) si richiede la forza di misurarsi con questa dimensione facendosi carico di una resa di complessità in grado di restituire una rappresentazione reale degli eventi.

Gli «strumenti d’opera» non possono essere unicamente ricondotti alla questione penale perché ciò avvita il dibattito su una dualità opposta e riduttiva: «certezza della pena» o «soluzione umanitaria». La questione resta storica ed il nodo non sciolto del «lungo ’68» risiede in un «non detto» di centrale importanza: il ruolo di uno Stato non defascistizzato di fronte alle trasformazioni della società nella Guerra Fredda.

Finiti gli anni cruenti del dopoguerra 1947-1954 (strage di Portella della Ginestra e 81 tra operai e contadini uccisi dalle forze dell’ordine nel corso di lotte per lavoro e terra); chiusa la fase dura della Guerra Fredda 1955-1959 (11 morti); superato il governo Tambroni (eccidi a Reggio Emilia e in Sicilia), gli anni del centro-sinistra furono i primi senza morti in piazza. Tuttavia ripresero dal 1968 a Lodè e Avola con il fuoco sui contadini siciliani. Allora Umberto Terracini pose il disarmo della polizia in funzioni di ordine pubblico come questione che «riassume e precisa in sé il problema fondamentale della vita attuale del Paese» ovvero «la ferma volontà degli uomini di governo di custodire e difendere, costi quel che costi, il sistema di gerarchie sociali ed economiche sulle quali si era sempre retta la vecchia Italia liberale-monarchica e fascista».

Il tema fu cancellato nel 1969 (anno dell’eccidio a Battipaglia) dall’irrompere della strage di Piazza Fontana, un’azione paramilitare contro civili inermi non rivendicata, eseguita dai fascisti di Ordine Nuovo con la complicità diretta di uomini degli apparati dello Stato. L’attentato terroristico fu il culmine eversivo volto a: trasferire sul terreno paramilitare il conflitto politico-sociale del ’68-’69; uccidere civili per realizzare un’operazione regressiva nella società e nello Stato; destabilizzare l’ordine pubblico delegittimando l’identità della democrazia conflittuale nata dalla Resistenza. Seguirono le stragi della Questura di Milano durante la commemorazione dell’assassinio di Luigi Calabresi (1973), Brescia e treno Italicus (1974), Ustica e Bologna (1980).

Lo stragismo è rimasto impunito, tranne singoli e limitati casi, quasi rimosso dalla sfera pubblica; con processi durati decenni; sostituito nell’immaginario collettivo dalla formula cinematografica «anni di piombo».
L’indiscutibile sostegno di cui godettero i responsabili degli attentati da parte dei vertici dei servizi segreti (che garantirono impunità, latitanze e depistaggi) non fu episodico ma strutturale a tutti i fatti di strage.

In questo quadro tuttavia prese forma la «legge Reale» del 1975 di cui Lelio Basso sottolineò il «carattere profondamente regressivo» teso ad «annullare di colpo le poche conquiste che erano state fatte sui codici fascisti». Un «massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costituzionali», scrissero i giuristi Ferrajoli e Zolo, da cui scaturirono altri morti nelle piazze.

Fare i conti con quel passato significa affrontare queste misure della storia repubblicana senza trincerarsi dietro paradigmi autoassolutori o censure.
Le vittime del terrorismo stragista ed i loro familiari, al netto della retorica usata sopra di loro negli anniversari, sono state umiliate da decenni di depistaggi e omertà istituzionali e solo la loro tenacia può permettere oggi, come dimostra l’inchiesta sulla strage di Bologna, di discutere le responsabilità di uomini delle istituzioni in quegli eccidi.

D’altro canto contestualizzare la storia non significa «giustificare» gli omicidi politici dei gruppi armati di sinistra e tantomeno eludere il tema della verità e della giustizia per i loro parenti. Allo Stato però è lecito chiedere il coraggio di non nascondersi alle spalle delle persone e del loro dolore ma restituire al Paese il senso della sua storia. Serve capire l’origine di un fenomeno per respingerne il messaggio politico, posto che gran parte di quei militanti ha scontato il carcere dopo la sconfitta.

L’evocata clemenza in cambio di verità inizia da una profonda rivisitazione senza sconti per nessuno. Capire com’è morto Giuseppe Pinelli senza nascondersi dietro il «malore attivo», dare volto politico ai mandanti delle stragi, spiegare perché i vertici dei servizi segreti finirono in mano alla P2. Su questo serve poco la retorica celebrativa che ogni 9 maggio ricorda l’uccisione di Aldo Moro e condanna «l’attacco al cuore dello Stato» portato dalle Br senza raccontare, anche, che da quel cuore, il 12 dicembre 1969, era nato il terrorismo.