I cinesi, inviando il modulo Cheng-E sulla faccia nascosta della Luna, hanno provato a far germogliare semi di cotone, che sono durati solo ventiquattrore per le temperature glaciali. Noi faremo meglio.

 

Atterra sulle pagine dell’ExtraTerrestre, e conta di durare molto di più, confidando sull’incoraggiamento e sul sostegno critico dei lettori, «Terreno duro», rubrica di orti e giardini, semi, piante e fiori. Non è necessario dilungarsi più di tanto sulla scelta di un titolo del genere per una rubrica di giardinaggio e di orticoltura, basta staccare gli occhi dagli smartphone ed alzarli, in una qualunque città italiana, per scoprire che gli alberi dei viali cittadini sono torturati e molto spesso a morte. Non è necessario dilungarsi molto per scoprire, poniamo in una cittadina dal nome «verde» come Erba, nel viale Cesare Battisti, che al posto dei ligustri morti o ammalati non ci sono che quadrati di ciottoli, o piuttosto asfalto, a riempire il vuoto lasciato. Questo avviene quasi dovunque, in modo uniforme dal nord al sud.

«Terreno duro» perché, lontano da ogni frivolezza estetica, il verde pubblico, in questo paese, è massacrato, affidato ad incompetenti, lasciato all’incuria o, peggio ancora, inghiottito dal cemento, soffocato dalle discariche, divorato dal fuoco.

«Terreno duro» perché la cultura botanica è appannaggio di pochi, perché anche le manifestazioni più frequentate come Orticola a Milano non raggiungono mai le cifre degli appassionati in paesi come la Francia o l’Inghilterra: Sissinghurst, il giardino della grande Vita Sackville West, conta centomila visitatori all’anno e nemmeno da lontano ha l’antichità e il prestigio universale del nostro Orto Botanico di Padova, tra i primi al mondo.

«Terreno duro» perché le frane che ammazzano ogni anno sono il frutto dell’abbandono del paesaggio agricolo, in specie quello montano.

«Terreno duro» perché se nella vicina Svizzera il contadino è considerato un guardiano del paesaggio, vero custode che lo presidia e ne impedisce il degrado, qui è l’esatto contrario: lo Stato non fa altro che vessare con leggi assurde e balzelli chi di agricoltura vive proprio nelle zone più difficili.

«Terreno duro» perché i fondi della Pac, sovvenzioni della Comunità Europea, vanno a chi possiede più ettari e chi possiede più ettari è lo stesso sistema che praticando una agricoltura industriale non solo ha già più soldi ma rapina il suolo, l’acqua, l’aria, contribuendo ad esaurire le risorse, avvelenare le falde, intossicare l’aria che respiriamo.

«Terreno duro» nei dati macroscopici e più prosaici: si dice che mancano i fondi ai Comuni e si vedono in azione gli «operatori ecologici» spruzzare pesticidi lungo le strade per debellare la parietaria oppure, consumando carburante, usare soffioni a motore anziché usare le scope.

«Terreno duro» perché la realtà degli ambienti che viviamo racconta di una pratica di inciviltà interessata, i casi virtuosi sono sperduti nel mucchio e quando, per un accidente raro quanto ecologico, un Comune importante ci prova, trova il biasimo degli ignoranti. Un esempio: a Milano, amministrazione Pisapia, si pensò, con tanto di apposizione di cartelli esplicativi, di non tosare l’erba in una parte delle centralissime aiuole di Piazza Castello. Era un’idea lodevole, non nuova per città civili come Parigi, o, ancora una volta, per la vicina Svizzera (a Chiasso, ad esempio, per lasciare crescere il selvatico ed offrire alle farfalle piuttosto che alle api la possibilità di nutrirsi). Insorsero i giornali della destra: «Orrore». Eppure la strada era quella giusta, tosare di continuo i prati dissecca e deperisce il terreno.

«Terreno duro» significa che in questa rubrica tenteremo, sostenuti dagli esempi più virtuosi e dalle letture più intelligenti, di trattare la terra, il suo suolo, quello strato infinitesimale, quella crosta sottilissima che da diciottomila anni permette l’agricoltura sul pianeta e la vita stessa su questo pianeta. Daremo il nostro contributo nel tentare di formare una coscienza che nel pratico avere a che fare con la terra possa invertire la china verso la sterilità e il deserto.

Questo terreno duro è quello che troviamo, noi proveremo ad arieggiarlo, a riempirlo di fragile fogliame. Lo trasformeremo, lentamente ma caparbi, ostinati, nella risorsa preziosa che si chiama humus fertile. Ci proveremo. Questa terra è innanzitutto terreno che calpestiamo, terreno che copriamo d’asfalto e cemento, e chissà che per avere terra leggera non si debba proprio ripartire da un amore e dall’approfondita conoscenza di questo suolo e di ogni sua erba, di ogni sua verzura. Siamo convinti che amore e conoscenza siano indissolubili e inscindibili. Si ama ciò che si conosce ed è più conosciuto il cielo stellato e le sue galassie che un metro quadro di buona terra con le miriadi di organismi che lo abitano.

«Terremo duro», vogliamo bene al suolo, vogliamo bene al friabile, fragile terreno, questo è il sentimento vitale. Vogliamo bene ai prati, vogliamo bene ai fiori, agli alberi, alle siepi, agli arbusti. Terremo duro. Questo è sicuro.