E’ operazione sempre meritoria quella condotta quando una collezione privata diventa argomento di pubblicazione e viene, così, consegnata ai lettori. Tanto è avvenuto con la raccolta delle sculture fittili di Roberta e Gerolamo Etro, gallerista lei, stilista lui, da decenni collezionisti attenti di arte moderna e di old masters. Ideata da Andrea Daninos, coordinata da Yasmine Helfer e curata da Andrea Bacchi, l’impresa corale di studiare e dare alle stampe una parte della raccolta Etro, si concretizza in Collezione G&R Etro Le terrecotte (Officina Libraria, pp. 415, e 75,00).

Un breve saggio di Bacchi introduce le otto rigorose sezioni cronologiche in cui sono divise le 72 schede del catalogo, che si conclude con un sincero scritto dello stesso curatore nel quale sono convogliati i ‘problemi aperti’, una serie di sculture raffinate, talune anche siglate o datate, per le quali non si è giunti a un risultato critico definitivo.

L’apparato fotografico è imponente. Le campagne condotte da Arrigo Coppiz, Marco Palermo e dallo Studio Fotografico Manusardi fissano le opere da più punti di vista, fondamentali per lo studio degli oggetti, e gli scatti permettono di apprezzare la materia in tutte le sue textures.

Non mancano le immagini di confronto, che non costruiscono solo rapporti tra sculture, ma instaurano anche fruttuosi dialoghi con grafica e pittura. Per quest’ultima, ad esempio, risulta calzante il raffronto, a firma di Nicola Ciarlo, tra una testa fittile della collezione Etro e una tavola dipinta da Alonso Berruguete: in entrambe le opere il tema del Johannesschüssel, la testa decollata di Giovanni Battista, è approfondito da particolari anatomici e da un’espressione di dolore congelata sul volto del santo, e il confronto stilistico aggancia la terracotta all’ambito dell’artista spagnolo.

È davvero intrigante anche l’iconica Testa di Seneca schedata come invenzione di Guido Reni, pittore sì, ma anche plasticatore, stando a quanto riferito da Malvasia nella Felsina pittrice. La testa calva e rugosa fa la sua comparsa in svariate testimonianze pittoriche della prima metà del Seicento e racconta così una grande fortuna coeva, ricostruita da Gerardo Moscariello.

Ma anche la grafica funge da termine di paragone. Come per la Pietà assegnata allo scultore Vincenzo Danti, un gruppo di piccole dimensioni già noto alla critica, affrontato da Lorenzo Principi, che lega la composizione a un disegno di Francesco Salviati, tradotto in incisione da Girolamo Faccioli e, tramite questa, circolata negli ambienti artistici fiorentini. O ancora come dimostra lo studio di Luca Annibali relativo a un gruppo con Cristo e i due ladroni crocifissi, derivato da celebri invenzioni di Michelangelo Buonarroti testimoniate da opere grafiche del maestro e di suoi copisti.

Antonio Raggi, “Divinità fluviale con delfino”, 1652-’53, collezione G&R Etro

Il volume consente al lettore di esplorare la completa varietà di tipologie e prassi di bottega che coinvolgevano le opere fittili nei cinque secoli rappresentati. La terracotta spesso incarnava le fasi creative del processo artistico, dal momento dell’ideazione, che dava luogo a bozzetti appena sgrossati nell’argilla, a modelli in considerevole stato di avanzamento, fino a oggetti rifiniti da presentare ai committenti.

Si segue così questa storia a partire dai bozzetti, come quello di Filippo Della Valle proposto da Susanna Zanuso, con l’idea per il monumento funebre a Innocenzo XII, poi realizzato in marmo con alcune varianti. La velocità di esecuzione e la materia spesso solo schiacciata con le dita raccontano una fase preliminare del lavoro, una modellazione atta più a comprendere le dimensioni dell’opera finale che non a delinearne i particolari. La stessa rapidità di lavoro caratterizza il Napoleone studiato da Stefano Grandesso, oppure il violento Satiro che cattura una ninfa, primo di una serie di esecuzioni sempre più definite di Jules Desbois, ricordate da Paolo Baldacci.

Fondamentali per ragionare su come gli artisti definissero il modello finale, per realizzare poi sculture monumentali, sono svariati esempi raccontati mediante brillanti confronti fotografici. Ad Alessandro Vittoria Monica De Vincenti associa quattro Evangelisti modellati in un momento di grande meditazione sulle invenzioni parmigianinesche, dei quali il trentino si servirà, placando certi virtuosismi nei panneggi, per altrettante sculture marmoree in grande formato.

È riemerso sul mercato nel 2004 un modello plasmato da Antonio Raggi, e ideato da Gian Lorenzo Bernini, per una fontana dell’estense Palazzo Ducale di Sassuolo: approfondita da Cristiano Giometti, questa Divinità fluviale sembra essere una versione solo poco più rapida di quella già conservata alla Galleria Estense di Modena. Da rintracciarsi nell’inventario della bottega di Gabriele Brunelli, è poi un possente Telamone che servì per quello sulla facciata di Palazzo Davia Bargellini a Bologna e pressoché coeva risulta una testa attribuita da Maichol Clemente a Giusto Le Court, un primo pensiero dell’artista fiammingo per l’Allegoria della Fortezza di San Lazzaro dei Mendicanti a Venezia.

Paola D’Agostino, invece, si occupa di un caso della Palermo della fine del Settecento, una rifinitissima Flagellazione di Francesco Ignazio Marabitti, tradotta in marmo dallo stesso artista per la Cappella dell’Ecce Homo nella chiesa di San Francesco d’Assisi.
Non mancano nemmeno modelli che furono tradotti da artisti diversi da quelli che lavorarono le terrecotte. Resa nota da Adolfo Venturi e in questa sede approfondita da Luca Siracusano, è una delicata statuetta assegnata ad Alessandro Vittoria: una figura femminile intenta ad accarezzare un mansueto leone, forse una Venezia, forse un’Indulgenza. La scultura ha, nel piccolo formato, l’imponenza di una statua monumentale e, infatti, fu adoperata da Lorenzo Rubini, cognato di Vittoria, per una grande versione lapidea, per la palladiana villa La Rotonda.

Non sempre il piccolo era pensato per essere tradotto in grande. Francesco Freddolini riconosce nell’Andromeda di Massimiliano Soldani Benzi una scultura nata per poter essere fusa in bronzo, come testimonia l’esemplare metallico del Getty Museum di Los Angeles, e la creta Etro, nonostante la perdita di alcuni dei particolari (forse proprio a causa di pratiche di bottega), restituisce tutto il movimento concentrico della scena frenetica. Anche Latona che trasforma in rane i pastori della Licia di Giuseppe Mazzuoli, opera già del cardinale Flavio Chigi, ha spinto Bacchi a ipotizzare una possibile creazione destinata alla fusione in bronzo, data la sua presenza, in una versione in cera, proprio nella casa dello scultore. Fu invece tradotto nel marmo, nella stessa piccola dimensione, il Plutone rapisce Proserpina di Francesco Ladatte schedato da Giuseppe Dardanello, uno studio che trova corrispettivo in una scultura firmata e conservata a Palazzo Reale a Torino.

Il rapporto poteva però anche essere invertito, come dimostra Davide Lipari, quando affronta, in un dettagliato esercizio di Kopienkritik, la replica fittile in piccolo formato della Fede con ritratto del cardinale Lelio Falconieri scolpita nel marmo da Ercole Ferrata per la chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini: lavoro di un allievo di bottega alle prese con la lezione del maestro.
Percorrono il crinale tra il modello dettagliato da tradurre in marmo e il lavoro concluso da consegnare ai committenti diversi dei ritratti che popolano il catalogo.

Giulia Albani di Camillo Rusconi, studiata da Vittoria Brunetti, precede il ritratto marmoreo ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna; il volto di Giovan Luca Durazzo rimbalza sia su un marmo che su un dipinto (di J.F. Voet, Museo di Palazzo Reale, Genova) e viene attribuito da Carlo Milano a Filippo Parodi, mentre invece l’Architetto dato a Giovacchino Fortini da Riccardo Spinelli risulta autonomo e non provvisto di un gemello lapideo. O ancora il Ritratto di giovane artista che Anne-Lise Desmas attribuisce al fiammingo Peter Anton von Verschaffelt, forse ascrivibile al suo periodo inglese: la bocca semiaperta, gli occhi fissi e quelle pieghe al centro della fronte, fanno di questo busto fittile uno dei più intriganti pezzi della raccolta. Siamo in Francia, invece, entro la fine del secolo quando Francois Masson modella il busto che Lionel Arsac suppone possa essere di Jacques-Francois Menou.

Infine, fingono il bronzo, con tanto di dorature, i busti di papa Clemente IX Rospigliosi e di Clemente X Altieri studiati da Alessandro Angelini e associati alla stecca di Ercole Ferrara. La patina finale che li rende scuri e lucidi come il bronzo racconta di un uso della materia umile atta a simulare il metallo, una trasformazione che scrive capitoli di storia del gusto e vicende conservative.