Presentato all’ultimo Torino Film Festival, scelto dal Trento Film Festival e nella selezione di Unarchive, rassegna romana dedicato al cinema d’archivio, Terra Nova è il nuovo film di Lorenzo Pallotta che, dopo Sacro moderno, torna a esplorare forme fuori canone. Imbarcato come filmmaker al seguito di una spedizione a carattere scientifico, diretta ai confini meridionali del mondo, Pallotta sfrutta l’occasione per condurre una sua ricerca personale parallela: da una raccolta di osservazioni laconiche ed ellittiche si costruisce una riflessione contemplativa sul senso e sui limiti delle immagini attraverso lo spazio e il tempo.

Non sei partito sulla rompighiaccio Laura Bossi per girare il tuo film.
Esatto. Sono partito con la trentottesima spedizione del Pnra – Piano Nazionale di Ricerca in Antartide. Ero operatore e videomaker per Morgana, una produzione che mi ha contattato per realizzare un documentario di divulgazione scientifica sui ricercatori, un progetto di stampo televisivo con interviste e coperture d’illustrazione. Io, nel frattempo, ho condotto una mia ricerca personale lavorando con una Handycam della fine degli anni Novanta. Giravo le mie cose negli intervalli e nei tempi morti. Essendo sempre giorno ed essendo vestiti tutti più o meno sempre allo stesso modo non ho avuto problemi di coerenza. Invece che andarmene a dormire riprendevo. Gli archivi sulla spedizione degli anni Ottanta li ho iniziati a vedere già in nave mentre i materiali che ho girato io li ho visti solo una volta tornato in Italia. Ho capito che stavo girando cose simili. Ho scoperto che io e l’operatore del passato avevamo punti di vista simili.

Nel momento delle riprese d’archivio a poppa lui inquadra spesso un altro operatore del quale ignoriamo l’identità, forse un operatore Rai; abbiamo inserito una specie di connessione tra me e lui, quasi come se in quel punto fossimo entrambi sulla stessa nave, quasi come se lui si specchiasse in un altro operatore che riprende le stesse cose. Ci è piaciuto usare questo trucco per collegare me e lui in quanto operatori e poi anche il passato e il presente della spedizione. Quell’operatore del passato nel frattempo è morto e ho pensato che fosse importante anche mettere in luce i suoi materiali che altrimenti sarebbero rimasti, probabilmente invisibili, in una mediateca, quella dell’Enea, sconosciuta ai più.

Il record raggiunto alla fine a cosa è riferito?
Record mondiale relativo al punto più a sud raggiunto da un’imbarcazione.

Per prima cosa, ci piacerebbe sapere qualcosa dell’intreccio di scelte che riguardano il gioco con i materiali, le macchine, le tecnologie. Anche cominciando dai bellissimi titoli di testa e di coda che esibiscono il modo in cui il film costruisce senso applicando scelte tecniche agli archivi.
È un film che in generale si è costruito pezzo a pezzo. I titoli sono arrivati alla fine, sapevamo che doveva esserci qualcosa legato alla materia del film. Sia sul piano della scelta cromatica, sia sul piano delle interferenze, inserite per creare un collegamento grafico con il resto del film. L’idea di fondo è l’estetica della Handycam. I titolisti hanno creato titoli basici poi li hanno portati su un programma di effetti per restituire il formato Handycam o comunque l’estetica della bassa risoluzione. Sui titoli di coda abbiamo inserito dei grafici – riferiti a rilevamenti sismici – provenienti direttamente dall’Issar, gli stessi usati per la locandina. Il montatore ha inserito i buchi neri che però sono sempre con un fondo di glitch, fino al finale che è puro glitch su nero. Serve a spezzare il materiale. Qualcosa di simile al cambio di punto di vista alla fine del film che distrugge il cliché ormai dilagante in rete della bellezza visiva dell’Antartide. Rivoltando la Go-pro in negativo destrutturi la realtà. Una dimensione quasi da videogioco che abbiamo enfatizzato con qualche accortezza anche nell’uso del sonoro. Abbiamo distrutto completamente il materiale che si vede nel resto del film, in senso buono però: i colori sono più o meno gli stessi ma si perdono i riferimenti; un po’ come avviene con la rotta, così nei titoli e in tutto questo viaggio.

Per quel che riguarda le scelte tecniche, l’uso della Handycam – una delle prime digitali – all’inizio mi preoccupava, poi è diventato utile in relazione al materiale d’archivio che è girato, quarant’anni fa, su nastro magnetico, e quindi digitalizzato con dei problemi, limiti tecnologici, sbalzi di segnale e di colore. Avendo la Handycam limiti suoi, le mie immagini sono state immediatamente vicine a quelle d’archivio.

Rispetto al confronto e all’accostamento tra materiali nuovi e archivi, molti si confondono e faticano a distinguere gli uni dagli altri. Questo per un verso è positivo perché consente, a chi entra fino in fondo nel film, di non distinguere più tra presente e passato, vivendolo come un viaggio unico, una navigazione unica.

E per quanto riguarda il sonoro in generale e la musica in particolare, cosa si può aggiungere?
Il lavoro sul sonoro è stato molto importante, ci ha permesso di trovare una dimensione narrativa. Per la musica mi sono rivolto a Chiara Lee, un’artista che collaborava con i freddy Murphy, i musicisti con i quali lavoro di solito. Lei ha fornito una prima traccia musicale che ci ha dato un primo set di riferimento per il montaggio, come se immagini e suoni andassero insieme, e a un certo punto non capisci se è suono ambientale, presa diretta o musica. Montavamo sulla base musicale. Gli altri musicisti poi hanno cercato di sviluppare quanto già fatto seguendo una costruzione che avesse andamento lineare. Questo si è poi intrecciato con il lavoro del sound design che ha puntato a trovare un equilibrio tra le varie mani, i vari livelli, le differenti dimensioni. Molti elementi della musica sono stati estrapolati dalla presa diretta della nave nel momento della rottura del ghiaccio, e poi i sonar, i disturbi delle radio. Il flusso che il sound design ha costruito mescolando tutti gli elementi è forse una delle cause che ha spinto molti a perdere di vista la distinzione tra il viaggio passato e quello presente e a viverlo come un’unica navigazione. Il materiale in origine era piuttosto grezzo, pieno d’imperfezioni. Invece di ripulirlo abbiamo pensato di trovare un’organicità nella crudezza e nella sporcizia. Questo ha guidato sia il lavoro sulla musica sia il lavoro sul suono.

Da una parte c’è l’esplorazione fisica: due navi che fanno lo stesso viaggio. Dall’altra una tua esplorazione, in parte fisica anch’essa, che è un viaggio, «herzoghianamente», ai confini dell’immagine. Setacciare i limiti di quello che si può mostrare tra presente e passato.
È così, è il senso del film. È un film che ragiona sulle forme del raccontare cinematografico. È una riflessione sull’essere umano che deve sempre avere coscienza del limite del possibile, del filtro dato dalla ricerca della conoscenza che è senza fine. Così neppure il film ha una fine. Anche se c’è il raggiungimento di un record per me il film non finisce lì. È una riflessione su come e quanto il cammino della crescita umana sia ancora simile a come era in passato. Questo permette che si viva ancora lo stupore. Quel che ho vissuto male è stato vedere intorno a me un’ossessione per la caccia all’immagine consumistica, al selfie, al video, senza neppure rendersi conto di quello che c’era intorno. Per questo preferivo la notte: non c’era nessuno e potevo fermarmi a guardare per ore le cose che capitavano senza neppure portare con me la macchina. Nel film questo ho cercato di riprodurlo con un senso di chiusura: a un certo punto si costretto a vedere attraverso un buco – il binocolo – quel poco che sta al centro e niente di quello che sta intorno perché devi essere libero di poterlo immaginare come vuoi. Alcuni mi hanno chiesto: nel film non si vedono pinguini, balene, ma tu li hai visti, li hai ripresi? E sì, io ho dovuto riprenderli, ma avrei voluto poterli guardare senza doverli riprendere.