Duemila e cinquecento anni fa, proprio in questi giorni, su uno stretto lembo di terra fra una ripida montagna e il mare, per settantadue ore abbondanti si combatté una delle più celebri battaglie di tutti i tempi. Oggi il nome Termopili ha perso il senso originario. Risuona l’eco dell’eroismo e dell’abnegazione, del dovere e del sacrificio. Ma quando Leonida, re spartano, con i suoi trecento uomini affiancati da settecento guerrieri Tespiesi che spesso la storia ha preferito dimenticare, decise di difendere il passo a ogni costo di fronte all’avanzata persiana, Termopili significava ben altro: più semplicemente, porte calde. Le porte si aprivano su mura già da tempo costruite sul passo. Il caldo era quello delle fonti di acqua curativa che ancora oggi accolgono, in ogni mese dell’anno, chi voglia immergersi, a poche centinaia di metri da una pompa di benzina dismessa e case zeppe di migranti.

Si potrebbe pensare che la calma dei nostri giorni non possa ricordare in nessun modo le ore che precedettero lo scontro. E si sbaglierebbe. Una delle più famose immagini che s’imprimono nella mente di chi legga il resoconto che ci ha tramandato Erodoto ci mostrano la spia inviata da Serse, il Gran Re di Persia, a osservare i nemici e la loro preparazione. L’uomo non crede ai suoi occhi e Serse ride quando lo ascolta: i Greci infatti si stanno lavando, si pettinano e fanno esercizi ginnici, come in ogni altro loro giorno. Gente simile – pensa il re che a dieci anni dalla sconfitta di Maratona ha messo insieme un esercito e una flotta sterminati – non potrà che fuggire immediatamente, di fronte alla semplice visione del numero di nemici. Ma Serse sbaglia di grosso e noi lo sappiamo. Il primo giorno di attacchi, nonostante l’impiego dell’armata scelta dei cosiddetti «immortali», si conclude con lo stupore del re che per tre volte salta sul suo trono visibilmente sconcertato. Il secondo giorno il copione si ripete. E solo il terzo giorno le cose cambiano, grazie al tradimento di un pastore di quelle parti chiamato Efialte, che suggerisce ai nemici come accerchiare i Greci. È a questo punto che il sacrificio di Leonida rende i Trecento (ma anche i Settecento Tespiesi) davvero immortali.

«O straniero, riferisci agli Spartani che qui / noi giacciamo, in obbedienza ai loro ordini». L’epigramma di Simonide che Erodoto lesse sulla collina dove gli ultimi Greci furono sterminati è diventato un simbolo di resistenza che ogni parte politica si è conteso nella storia, piegandolo (e traducendolo) secondo i propri comodi. Parole, leggi, ordini. Cosa spinse Leonida al martirio che molti storici avrebbero giudicato, ribaltando la vulgata a cui siamo abituati, del tutto inutile? Erodoto ci spiega che il re di Sparta, andò a morire in prima linea con pochi uomini per mostrare agli altri Greci che Sparta, come Atene, non cedeva alle pretese persiane e che arrendersi e allearsi al nemico non avrebbe portato che a un unico risultato: la sottomissione. L’idea di Erodoto, seguita poi da molti interpreti antichi, è che la grandezza dei Greci stava nel lottare per la libertà da uomini liberi, mentre le infinite truppe straniere guerreggiavano non libere ma sottomesse, semplicemente eseguendo gli ordini di chi li dominava. I Greci non rispondevano a tiranni ma soltanto alla legge. E la legge pretendeva di non arretrare di fronte al nemico, e di non cedere di fronte ai soprusi.

Si tratta evidentemente di una verità che i cantori antichi ingigantirono per bisogno di propaganda e di glorificazione. Ma non c’è dubbio che senza il sacrificio di Leonida molti di coloro che pochi giorni più tardi spazzarono via il nemico nelle acque di Salamina, si sarebbero dispersi, illudendosi di poter difendere o salvare le proprie città, senza lottare in difesa di una terra comune per lingua, tradizioni e credenze ma da sempre e per sempre divisa fra le tante poleis, ossia quelle che ci siamo abituati a chiamare città-stato. Quello che importa oggi, tuttavia, è altro. Se noi leggiamo i racconti e le cronache che fiorirono intorno alle Termopili eppoi Salamina rimaniamo sbalorditi soprattutto da un punto di vista così moderno da risultare indigesto in qualsiasi tempo in cui le civiltà si scontrano – attraverso guerre culturali, economiche o militari.

Sia Erodoto che Eschilo, il grande tragediografo che avrebbe cantato nei Persiani la battaglia di Salamina, cercano infatti di osservare i fatti dal punto di vista dei nemici. E vedono nel delirio di onnipotenza di Serse un dramma assolutamente umano che colpisce chiunque, straniero o greco, in qualsiasi tempo. Serse aveva creduto di poter sottomettere non solo la Grecia tutta ma la stessa natura, creando inumani ponti di barche su quello che oggi chiamiamo lo Stretto dei Dardanelli, o tagliando terre per costruire canali, come se nulla potesse opporsi alla sua potenza. Ma gli dèi puniscono chi vuole superare la misura umana. E regolarmente chi, schiavo del suo delirio, ha creduto di poter umiliare ogni avversario, si ritrova in terra a osservare la propria rovina. Un dramma umano che unisce ogni popolo e che si ripete in ogni stagione e a cui assistiamo regolarmente con l’unica colpa di non farne mai tesoro e al tempo stesso, paradossalmente, di non sorprenderci più.

*Nell’ambito della XVII edizione del Festival della Mente di Sarzana , lo scrittore e studioso del pensiero antico Matteo Nucci terrà due incontri in piazza Matteotti alle 21.30: Il sogno della libertà. Le Termopili, venerdì 4 settembre e Il sogno della libertà. Salamina, sabato 5 settembre.